Le parole scritte nero su bianco nel decreto di fermo della Procura parlando di un assassino spietato, privo di sentimenti di compassione e di pietà. In questi sette giorni di caccia al killer, in pochi hanno immaginato che quell’uomo che alcuni testimoni hanno visto fuggire con la felpa e il cappuccio calato sul volto per non essere riconosciuto, che ha studiato le strade da percorrere per evitare di essere immortalato dalle telecamere di videosorveglianza, che ha «pianificato» il delitto nei minimi particolari, segnando sui pezzi di carta le mosse da fare e il tempo da rispettare, fosse poco più di un ragazzo, uno studente di scienze infermieristiche, una professione delicata che fa dell’amore verso il prossimo le sue fondamenta. La descrizione che esce dalle pagine è inquietante. Antonio De Marco, 21 anni appena, non si è fermato davanti a nulla.
Ha inseguito Daniele ed Eleonora per casa, li ha accoltellati con una violenza e una ferocia che va oltre il “desiderio” di uccidere. Sarebbero bastate le ferite agli organi vitali per mettere fine alla vita dei due ragazzi che forse non gli hanno nemmeno aperto la porta dell’appartamento, dove erano andati a vivere da poco, ma si è accanito. Ha infierito. Ha colpito anche dove non era necessario, sul volto dell’arbitro ad esempio. Sintomo – si legge – di un’indole particolarmente violenta, insensibile ad ogni richiamo umanitario. Eppure Eleonora e Daniele lo hanno implorato di fermarsi. «Basta, ci stai ammazzando» hanno gridato.
La premeditazione
C’è poi la premeditazione. Non solo nei biglietti dove aveva scritto con inquietante meticolosità il «cronoprogramma dei lavori». Sui pezzi di carta ritrovati nel cortile del condominio aveva disegnato la mappa per raggiungere l’appartamento al civico numero 2 di via Montello eludendo le telecamere. Per due mesi aveva studiato il percorso. Aveva pianificato come uccidere Eleonora e Daniele e torturarli “per 10 minuti” secondo i suoi calcoli dopo averli immobilizzati con le strisce ritrovate nell’appartamento, come ripulire la scena del crimine, con l’acqua bollente e la candeggina. C’è un altro dettaglio, scioccante, che getta un ombra sul 21enne, il «pericolo di recidivanza», la paura che potesse rifarlo. Uccidere ancora. Sul cappuccio ricavato da un paio di calze di nylon da donna aveva disegnato con un pennarello nero una bocca. «Ciò – si legge – non risulta necessario alla consumazione del reato».
“La vendetta è un piatto che va servito freddo”
Non c’è ancora un movente, forse bastava l’odio che aveva covato dentro, che gli aveva scavato un solco talmente profondo da spiengerlo ad uccidere. «La vendetta è un piatto da servire freddo. È vero che non risolve il problema, ma per pochi istanti ti senti soddisfatto» aveva scritto il 21enne su Facebook condividendo il post di un blog dal titolo «desiderio di vendetta». Era il 3 luglio, tre giorni prima di chiedere a Daniele ancora la stanza in affitto. Una vendetta consumata senza rimpianti, prima di tornare alla normalità, alle lezioni, al tirocinio all’Ospedale Vito Fazzi di Lecce, dove ieri si sono presentati gli uomini in divisa. Avrebbe riso di fronte ai Carabinieri che aveva evitato con cura.