Ha raccontato di «sentire la voce di Allah» e in suo nome era pronto a morire. Non solo, in una telefonata alla moglie, rimasta in Gambia, si era definito un «solato di Dio». È Sillah Osman, il terrorista 34enne arrestato a Napoli che, nei giorni scorsi, aveva fatto “tremare” chi lo stava osservando da lontano, senza perderlo mai di vista.
L’uomo, “cellula dormiente”, si è aggregato ad una processione religiosa, in un paesino del Salento e gli uomini delle forze dell’ordine che lo stavano seguendo, per un attimo, hanno temuto che stesse per entrare in azione. Qualcosa in più di una “paura”, dato che nella sua stanza del Cara, dove era stata nascosta una telecamera, aveva finto spesso di usare armi, compresi mitra, con cui mimava attacchi, scene di esplosioni o di combattimenti.
Insieme ad un altro connazionale, Alagie Touray – catturato a pochi passi da una moschea a Licola, il 20 aprile scorso – aveva partecipato ad un duro addestramento nel deserto, in un campo chiamato mo’askar.
Giorno e notte, si erano preparati a ricoprire uno dei tre ruoli previsti: quello di combattente per l’Isis negli scenari di guerra, di kamikaze, con l’obiettivo di preparare attentati e farsi esplodere e di soldato, immolato al suicidio e pronto, all’occorrenza, a trasformarsi in martire in nome di Allah.
Settanta, forse cento soldati che, alla fine delle “lezioni” su come usare le armi o a resistere alla fame, alla sete e al sonno, hanno giurato ‘fedeltà’ allo Stato islamico.
Scoprire chi e dove siano sembra essere la missione degli inquirenti napoletani che hanno arrestato i due presunti terroristi, ma ora cercano di dare un volto e un nome a tutti gli altri. Erano arrivati in Italia, attraverso le rotte dell’immigrazione clandestina e ora dovranno rispondere di associazione a delinquere finalizzata al terrorismo nell’indagine Procura di Napoli, guidata da Giovanni Melillo.
Pronto a colpire
Il 21enne Touray, titolare di un foglio di soggiorno provvisorio, avrebbe dovuto lanciarsi sulla folla con un’auto. E aveva già ricevuto l’ordine di uccidere. Dopo che gli investigatori hanno assistito a un “delirio religioso”, provocato probabilmente dall’uso di droga hanno deciso di procedere.
Il suo racconto ai “crociati” (così vengono definiti gli investigatori italiani) del viaggio in Libia è stato determinante per «stanare» Sillah, riconosciuto da alcuni segni particolari come la sua predilezione per i calzoncini corti, la forte divaricazione degli incisivi, la passione per la musica reggae e il modo di camminare.
Interrogato ha ribadito “se fossi morto per la causa della jihad facendomi esplodere avrei raggiunto e meritato il paradiso”.
Chi era «Abou Lukman»
Sillah, come Touray, è un richiedente asilo e si trovava in una casa di Castri di Lecce, perché dopo essere stato ospite del Cara di Bari, il 29 maggio 2018, era stato ammesso a partecipare ad un progetto dello Sprar (sistema di accoglienza dei comuni) di Lecce. Pochi giorni prima, Abou Lukman (il suo nome di battaglia) “in evidente stato di alterazione psicotica” si era unito ad una processione religiosa cattolica sino ad una chiesa, per poi vagabondare nella campagna leccese, scavalcare la recinzione di una villetta ed essere “trovato dai carabinieri molto confuso”.