La storia di Giovanni Spampinato, ucciso perché cercava la verità

In pochi conoscono il nome del giornalista Giovanni Spampinato, le ragioni del suo omicidio. Ecco la sua storia

Un giornalista può morire perché sa fare bene il suo lavoro? È racchiusa in questa domanda la storia di Giovanni Spampinato, cronista scomodo e coraggioso, ucciso con sei colpi di pistola, sparati a bruciapelo nella notte tra il 27 e il 28 ottobre mentre era al volante della sua Cinquecento. Non aveva ancora 26 anni quando ha pagato con la vita il suo amore per la verità, la convinzione che con le parole avrebbe potuto scuotere le coscienze, sollevare quel velo di ipocrisia e falsità che copriva la sua città, Ragusa.

La storia del corrispondente comincia con un misterioso omicidio. Per capire tocca fare un passo indietro, riavvolgere il nastro del tempo e tornare al 25 febbraio 1972, quando Angelo Tumino, ingegnere con la passione per le opere d’arte e l’antiquariato, freddato con un colpo di pistola calibro nove sparato a bruciapelo al centro della fronte e abbandonato in una sperduta trazzera di campagna. L’auto fu lasciata in una stradina, con le chiavi attaccate al cruscotto e lo sportello appena accostato. Il cadavere, invece, fu trovato casualmente da una donna che stava portando il pane al padre in campagna.

Spampinato si getta a capofitto come solo uno che ama il suo mestiere sa fare. Indaga, scopre una pista che potrebbe far tremare la città. La sua attenzione si concentra su un 30enne, figlio del Presidente del Tribunale di Ragusa con una passione mai taciuta per le armi. Il giornalista, corrispondente per L’Ora di Palermo, mette nero su bianco i suoi sospetti, ma resta solo, solo contro tutti, isolato anche dai colleghi che dedicato al caso Tumino solo qualche striminzito trafiletto. Passerano mesi, il giornalista incassa una querela. Ha paura, ma il coraggio è più forte: è convinto che si è infilato in qualche cosa di grosso, che non può smettere di parlare di quella storia.

L’ultimo capitolo sarà scritto la sera del 27 ottobre 1972, quando il giornalista, dopo aver accompagnato a casa la fidanzata, si mette al volante della sua Cinquecento che diventerà la sua tomba. L’orologio segna le 22.00, quando sei colpi mettono fine alla sua vita. Giovanni muore sul colpo, freddato dai proiettili che l’assassino impugna per non sbagliare. Il 6 novembre avrebbe compiuto 26 anni. A premere il grilletto sarebbe stato proprio l’intoccabile rampollo, figlio del Presidente del Tribunale. Il ragazzo confessa, racconta di aver voluto mettere fine alle provocazioni, a quella che considerava una campagna denigratoria sfociata, a suo dire, in persecuzione. «Vengo a costituirmi perché ho ucciso una persona e ora voglio dormire», dice agli uomini in divisa.

L’omicidio di Spampinato fa calare il silenzio sul delitto di Tumino, amante della bella vita, con un passato di costruttore e una parentesi di consigliere comunale del Msi, tant’è che l’inchiesta finisce chiusa in un cassetto.

Il rampollo “viziato” fu condannato in primo grado a 21 anni di carcere, ridotti, in appello, a 14 anni. La difesa cercò di aggrapparsi alla storia che «Spampinato si era comportato scorrettamente, com’è tipico di certa stampa che mira soltanto a vendere qualche copia in più». Aveva sbattuto il mostro in prima pagina, non il merito di aver acceso i riflettori lì dove era calato il buio. Alla fine ha scontato solo 8 anni, non in carcere, ma nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, prima di tornare definitivamente libero.

Quella di Giovanni Spampinato è la storia di un giornalista che rincorreva la verità, dove nessuno aveva interesse a cercarla. E così deve essere ricordato, cancellando quegli anni in cui il suo nome veniva sempre seguito da un laconico “se l’è cercata”.