L’infamia delle torce d’ulivi che stanno devastando il Salento

Gli ulivi del Salento bruciati sono una tragedia, dolorosa come l’incendio che ha distrutto la cattedrale metropolitana di Notre-Dame, a Parigi.

Esulando da qualsiasi tipo di analisi attorno alle ragioni pure e semplici della speculazione economica d’interesse pubblico o privato, il fenomeno ormai quotidiano dell’incendio doloso degli ulivi pone una questione di carattere etico, ovvero morale, e culturale: questione che però tocca il pubblico e il privato senza distinzione.

Le immagini più drammatiche, quelle delle torce arboree lungo l’arteria stradale Lecce-Maglie, prima ancora che gli occhi, trafiggono il cuore: ma soltanto nel momento in cui si prende davvero interiormente atto dell’istantaneo azzeramento di una cultura agricola, contadina e, perché no? “poetica” dalle spalle d’innumerevoli secoli di storia.

Prendere finalmente coscienza di ciò è provare fisicamente e spiritualmente un senso di concreta vertigine: come di camminare sulla sommità d’un vuoto. Un ulivo secolare a fuoco, anche uno solo, dovrebbe scatenare un sentimento di tragedia non inferiore a quello della Notre-Dame parigina devastata dalle fiamme.

Ora, per quanto abituati alle recinzioni dei campi e, implicitamente, a un senso della proprietà privata che ci induce ad autoassolverci dal crimine del singolo, esiste un concetto che ci riporta alle nostre responsabilità collettive: è quello di “foresta di ulivi”, dove il termine “foresta” indica una collettività di individui vegetali tanto quanto un’appartenenza sopragiuridica di quegli alberi a tutti noi. In tal senso, sugli stessi libri di scuola, all’usuale capitolo sui danni irreversibili della deforestazione amazzonica potrebbe subentrare senza ombra di esagerazione il capitolo sulla deforestazione dell’intero paesaggio salentino: con l’appello a una pari indignazione e a un pari allarme.

A risvegliare nella maniera più consona le coscienze potrebbe forse servire una sostituzione d’immagine: al posto delle torce di ulivi immaginiamo un seguito di un centinaio di cani o gatti che corrono per i campi avvolti dal fuoco dopo che qualcuno li ha crudelmente cosparsi di combustibile. Diamo per certo che l’indignazione si tramuterebbe nel giro di pochi minuti in protesta attiva globale.

Bisogna, infine, prendere atto che dare alle fiamme gli ulivi è anche più grave, non trattandosi di un crimine qualunque, bensì di un crimine contro l’umanità, per via, appunto della lunga storia di cui sono protagonisti e portatori di testimonianza. Ed è proprio questo il senso di quell’antica legge ateniese, spesso citata e talvolta auspicata, che condannava a morte chiunque si fosse macchiato della distruzione di un ulivo. A ben vedere, quella legge è sotterraneamente ancora in corso, perché la morte di quegli ulivi è la stessa morte di chi appicca quei fuochi. A ben vedere, è la morte di noi tutti. Anche di coloro che devono ancor nascere.

Il patibolo è, dunque, a pieno regime.



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