26 gennaio 2020. È una mattinata nebbiosa nella contea di Los Angeles e dall’aeroporto della contea di Orange County si alza in volo un elicottero. Passano pochi minuti dal decollo e sembra tutto tranquillo, ma quando l’orologio segna le 9.40 il velivolo perde colpi, si avvita su se stesso e precipita, schiantandosi su una zona collinosa e boschiva. Scoppia un incendio e mentre i Vigili del Fuoco sono ancora in azione, tra il fumo e le fiamme, cercando di spegnere l’incendio, un sito americano lancia una notizia che nessuno avrebbe voluto sentire. Tra le nove persone a bordo che hanno perso la vita c’era la leggenda del basket Kobe Bryant e la figlia Gianna Maria, di appena 13 anni, astro nascente del basket femminile. Tutti morti.
In pochi secondi la notizia fa il giro del mondo, ma in tanti sperano che si tratti di un errore. Non era così. L’elicottero personale di Bryant, quello con cui amava spostarsi sempre, anche ai tempi degli allenamenti con i Lakers, si era schiantato a Calabasas. Quando la notizia fu ufficiale, tutto il mondo cominciò a condividere l’ultimo scatto di Kobe, una fotografia mentre abbraccia la figlia tra il pubblico di una partita dell’Nba.
Il campione che amava l’Italia
The Black Mamba, come era soprannominato Bryant, era considerato uno dei più grandi giocatori di sempre, un campione dentro e fuori dal campo che amava l’Italia. Il ragazzo, cresciuto tra Rieti e Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, per seguire il papà, Joe, non aveva mai spezzato il legame con le città in cui era cresciuto né con un Paese che, aveva detto, gli era rimasto nel cuore. Anche quando era tornato in America, continuava a parlare italiano quando incontrava qualcuno con un ‘accento’ familiare. Aveva scelto per le quatto figlie nomi italiani: Natalia Diamante, Bianka Bella, Capri Kobe e Gianna Maria, scomparsa con lui nell’incidente. Amava tornare in vacanza in quei luoghi dove aveva lasciato le sue radici. E poi la passione per il Milan: «se mi tagliassero il braccio sinistro, sanguinerei rossonero – disse una volta in una intervista – Da quello destro, invece, esce il gialloviola dei Lakers».
L’addio al basket
Indimenticabile il suo ritiro con una lettera scritta al Basleket a cui aveva dato tutto. Parole che avevano toccato e commosso tutti: «Da bambino di 6 anni profondamente innamorato di te non ho mai visto la fine del tunnel. Vedevo solo me stesso correre fuori da uno. E quindi ho corso. Ho corso su e giù per ogni parquet dietro ad ogni palla persa per te. Hai chiesto il mio impegno, ti ho dato il mio cuore perché c’era tanto altro dietro. Ho giocato nonostante il sudore e il dolore non per vincere una sfida, ma perché tu mi avevi chiamato. Ho fatto tutto per te, perché è quello che fai quando qualcuno ti fa sentire vivo come tu mi hai fatto sentire.
Hai fatto vivere a un bambino di 6 anni il suo sogno di essere uno dei Lakers e per questo ti amerò per sempre.
Ma non posso amarti più con la stessa ossessione. Questa stagione è tutto quello che mi resta. Il mio cuore può sopportare la battaglia la mia mente può gestire la fatica, ma il mio corpo sa che è ora di dire addio. E va bene.
Sono pronto a lasciarti andare. E voglio che tu lo sappia così entrambi possiamo assaporare ogni momento che ci rimane insieme. I momenti buoni e quelli meno buoni. Ci siamo dati entrambi tutto quello che avevamo. E sappiamo entrambi, indipendentemente da cosa farò, che rimarrò per sempre quel bambino con i calzini arrotolati nel bidone della spazzatura nell’angolo 5 secondi da giocare.
Palla tra le mie mani. 5… 4… 3… 2… 1…
Ti amerò per sempre, Kobe »
La lettera ha ispirato un cortometraggio – Dear Basketball – realizzato con il regista e animatore Glen Kean, che si aggiudicò l’Oscar nel 2018.