Leonarda Cianciulli, l’inquietante storia della saponificatrice di Correggio

Passata alla storia come le «Saponificatrice di Correggio», Leonarda Cianciulli uccise tre donne tra il 1939 e il 1941 e, dice la leggenda, fece con i loro corpi sapone e pasticcini che poi offrì alle amiche.

Era il 15 ottobre 1970 quando il cuore di Leonarda Vincenza Giuseppa Cianciulli smise di battere. Se ne andò, come una tranquilla vecchietta, nel manicomio di Pozzuoli dove era ricoverata, forse inconsapevole che la sua storia, che si perde tra leggende e dicerie, avrebbe ispirato film, pièce teatrali, canzoni e libri che hanno cercato di ricostruire la vita della «saponificatrice di Correggio», la serial killer più famosa del novecento. Descritta come un mostro, l’incarnazione del male, conquistò le prime pagine dei giornali dell’epoca con i segreti nascosti nelle pagine della sua vita casa e chiesa.

Accusata di aver ucciso Ermelinda Faustina Setti, Clementina Soavi e Virginia Cacioppo, tre donne che avevano avuto la sfortuna di frequentare casa sua, Leonarda fece parlare di sé non tanto per gli omicidi che aveva commesso con la sua faccia “per bene”, quanto per aver cercato di fare con i loro corpi saponi e dolcetti da offrire alle amiche.

Cosa aveva trasformato una moglie e madre in una spietata assassina nessuno è mai riuscito a spiegarlo. Aveva avuto una vita difficile, questo sì: l’infanzia povera in un paese dell’Irpinia, qualche piccola truffa per sopravvivere, tre aborti, dieci figli morti in fasce e una madre che aveva ostacolato il suo matrimonio e che aveva maledetto, in punto di morte, lei e tutta la sua futura famiglia.

Il matrimonio e la maledizione

Aveva 23 anni quando sposò Raffaele Pansardi, un impiegato del Catasto contro il volere della mamma che, come voleva la consuetudine per l’epoca, aveva scelto per lei un altro uomo. Una decisione controcorrente che le era costata cara. Nel suo memoriale, racconta di essere stata ‘maledetta’ la vigilia delle nozze e di aver, per questo, troncato ogni rapporto con la famiglia di origine. Anche in punto di morte, la mamma aveva augurato alla figlia una vita piena di sofferenze. E il dolore non era mancato.

Dopo il terremoto che colpisce l’Irpinia nel 1930 Leonarda, rimasta senza casa, si trasferisce con il marito e i quattro figli ai quali era legata in modo morboso dopo aver perso 13 figli (10 in culla) a Correggio, un paesino in provincia di Reggio Emilia, dove si era rimboccata le maniche, conquistando da sola una discreta posizione sociale, grazie al commercio casalingo di abiti usati e, si dice, all’attività di maga che leggeva il futuro e toglieva il malocchio. Era stata lei a risollevare le sorti della famiglia. Il marito, un uomo per bene che, con il modesto stipendio di 850 lire al mese, a malapena riusciva a mantenere decorosamente moglie e figli, si era dato al vino e nel 1939 era andato via, abbandonando moglie e figli.

Nessuno avrebbe mai immaginato che dietro quella donna a modo si nascondeva il profilo di una criminale.

Gli omicidi

La prima donna a essere uccisa dalla “saponificatrice di Correggio” fu Ermelinda Faustina Setti, attempata zitella attirata in casa Cianciulli con la scusa di un matrimonio combinato. Nonostante la non tenera età di 73 anni, la donna sogna ancora di trovare l’uomo della sua vita. Sogno realizzato da Leonarda che l’aveva “accasata” con un amico di Pola, a patto che non ne avesse fatto parola con nessuno per non scatenare invidie e gelosie. Il giorno della partenza, Faustina si recò a casa della vicina per salutarla. Si accomodò per un caffè. Era corretto con il laudano. Ermelinda Faustina Setti non prenderà mai quel treno per Pola perché fu uccisa a colpi di scure da Leonarda che le spaccò la testa, trascinò il corpo in uno stanzino e lo sezionò in nove parti, raccogliendo il sangue in un catino. L’anziana fu sciolta nella soda caustica utilizzata con l’allume di rocca e la pece greca per fare delle saponette. Nel diario, Leonarda scrisse anche di aver raccolto il sangue in un catino, per farlo seccare al forno e usarlo con farina, zucchero, cioccolato, latte e uova, oltre a un poco di margarina, per fare pasticcini che vennero serviti alle altre amiche.

La seconda vittima cadde nella trappola il 5 settembre 1940. Si tratta di Francesca Clementina Soavi, un’insegnante a cui aveva promesso un lavoro in un collegio femminile di Piacenza. Per cercare di sviare i sospetti, la Cianciulli convinse l’amica – una credulona, incapace di rassegnarsi a un’esistenza infelice, segnata dalla vedovanza – a scrivere delle cartoline da inviare ai familiari, ma le consigliò di mantenere segreta la sua destinazione, almeno fino a quando non fosse stata sicura di aver ottenuto il posto. Il copione fu lo stesso: dopo aver ucciso la donna, Leonarda le rubò i pochi soldi che aveva e, con il permesso che le aveva concesso prima di morire, si fece carico di vendere tutte le sue cose e si tenne la somma guadagnata. Leonarda non poteva ancora saperlo, ma Francesca non aveva mantenuto la promessa di tenere la bocca chiusa sul suo imminente trasferimento. Nonostante questo, la sua scomparsa non destò sospetti. Non ancora.

Il 30 novembre del 1940, toccò a Virginia Cacioppo, attirata con la scusa di un lavoro a Firenze come segretaria di un misterioso impresario teatrale. Per convincerla, le aveva anche ventilato l’ipotesi di un possibile ingaggio. Un sogno per la donna che trascorreva le sue giornate a raccontare del suo brillante passato di artista, che non si era mai rassegnata di aver dovuto lasciare irrimediabilmente alle spalle. L’ex soprano andò incontro alla stessa sorte delle altre due donne: “finì nel pentolone, come le altre due – scrisse la serial killer nel suo memoriale – ma la sua carne era grassa e bianca: quando fu disciolta vi aggiunsi un flacone di colonia e, dopo una lunga bollitura, ne vennero fuori delle saponette cremose. Le diedi in omaggio a vicine e conoscenti”. Anche a lei, Leonarda chiese di non dire nulla circa la sua partenza, ma la donna infranse il silenzio. La cognata, nient’affatto convinta dalla cartolina d’addio, aveva insistito perché fosse fatta luce su quella sparizione. E si arrivò alla Saponificatrice di Correggio.

Il movente

Si racconta che la ‘seconda vita’ da serial Killer di Nardina (la chiamava così la madre) o di Norina (soprannome datole dal padre) cominciò quando una madonna nera (o la stessa defunta madre, Emilia) le apparve in sogno chiedendole vite umane in cambio di quelle dei suoi figli, il sacrificio di vittime innocenti le avrebbe evitato altro dolore. Uccidere Faustina, Francesca e Virginia non le sembrò poi così aberrante, se sull’altro piatto della bilancia c’era il sangue del suo sangue.

«Non ho ucciso per odio o per avidità, ma solo per amore di madre», scrisse. Il movente economico alla base degli omicidi (la Cianciulli si appropriò di tutti i beni, seppur modesti, delle vittime, facendo anche degli acquisti nei giorni successivi, tra cui un apparecchio radio) non venne mai messo in risalto.

Insomma per la giustizia, la psichiatria, i media e ovviamente l’opinione pubblica l’immagine di una moderna strega, che usa normali oggetti quali il seghetto o il martello e che scioglie in grandi pentoloni le sue vittime, piace di più rispetto a quella di una lucida omicida che uccide essenzialmente per ricavare soldi per tirare avanti la famiglia, specie dopo la fuga del marito.

Leonarda Cianciulli fu riconosciuta colpevole per i reati di omicidio, furto e vilipendio di cadavere e condannata a trent’anni, mentre il figlio Giuseppe, accusato di concorso in omicidio con la madre, fu assolto, come lei aveva sempre sperato, seppur con la formula dubitativa.

“Tagliai qui, qui e qui: in meno di 20 minuti tutto era finito, compresa la pulizia. Potrei anche dimostrarlo ora”. Così nel 1946 la “saponificatrice di Correggio” dichiarò in tribunale di essere disposta a far vedere come si fa a pezzi un cadavere. I tre delitti di cui era accusata li aveva confessati senza battere ciglio e con la stessa freddezza aveva dichiarato di aver fatto con i corpi delle sue vittime saponi e dolcetti.

Quella dimostrazione non fu mai autorizzata, anche se la leggenda vuole che fosse stato usato, su autorizzazione del Giudice, il corpo senza vita di un vagabondo da smembrare. E che lei l’avrebbe fatto a pezzi senza scomporsi.

Fu condannata a 30 anni di reclusione preceduti da tre anni di ricovero in una casa di cura: di fatto entrò in manicomio e non ne uscì più. Vi morì nel 1970, alla soglia dei 78 anni. Una suora la ricordò in questo modo: «Malgrado gli scarsi mezzi di cui disponevamo preparava dolci gustosissimi, che però nessuna detenuta mai si azzardava a mangiare. Credevano che contenessero qualche sostanza magica».

Fu sepolta nel cimitero di Pozzuoli in una tomba per poveri. Al termine del periodo di sepoltura, nel 1975, nessuno ne reclamò il corpo e i resti finirono nell’ossario comune del cimitero della città.
Su quella vicenda di cronaca nera, che per settimane ha magnetizzato l’attenzione di moltissimi italiani, non scese mai il sipario.



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