5 settembre 1981. Sembra ieri e forse lo è. Del resto, fa impressione pensare che sono passati poco più di quarant’anni da quando il matrimonio riparatore consentiva ad un “uomo” di evitare il carcere e una condanna penale, e ancor più morale, sposando la donna che aveva violentato. Era consentito dalla legge, così come ucciderla se solo avesse avuto il coraggio di venire meno ai suoi doveri coniugali. Delitto d’onore, si chiamava. A pagarne il prezzo erano sempre le donne, costrette a convivere non solo con una ferita, ma anche con il mostro che l’aveva provocata.
Per capire tocca fare un passo nel passato, nemmeno troppo lontano. Il matrimonio riparatore e il delitto d’onore erano regolati nell’articolo 544 e 587. «Il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo. E, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali». Come dire, se vuoi una donna, prenditela con la forza, poi la sposi e passa tutto: questo recitava il testo, agghiacciante. Senza contare che, a volte, era la famiglia della vittima a spingere per le nozze, solo per salvare la faccia. In altri casi, il matrimonio veniva celebrato per porre rimedio a una situazione ritenuta “disonorevole” come una fuga d’amore o una gravidanza.
Non era da meno l’articolo sul delitto d’onore. “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da 3 a 7 anni”. Niente rispetto ai 21 anni, il minimo previsto per l’omicidio. Tra attenuanti, circostanze generiche e quant’altro, significava in sostanza farsi qualche mese di carcere e tornare a casa vantandosi con amici e parenti di aver salvato l’onore. Come nel caso di Marcello Mastroianni in “Divorzio all’italiana”, capolavoro di Pietro Germi.
Bastò una legge per cancellare il delitto d’onore, il matrimonio riparatore e anche l’abbandono di neonato per onore, la 442/1981. Una sola riga. Eppure, quando venne approvata, buona parte della politica italiana del tempo non esultò. Anzi, ci furono dei malumori anche se la strada segnata era quella giusta. Nel 1968 venne abrogato il reato di adulterio, nel 1970 introdotto il divorzio e nel 1978 regolamentato l’aborto.
A pesare sull’abolizione della norma che di fatto cancellava la colpa di chi stuprava una donna se poi la sposava era stato un fatto di cronaca.
La storia di Franca Viola
«Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce».
Fino al 26 dicembre 1965, Franca Viola era una sconosciuta ragazzina di Alcamo, un piccolo paesino in provincia di Trapani. Non era ancora la coraggiosa protagonista di una storia che avrebbe cambiato e forse salvato la vita di altre donne. Quella notte dopo Natale, la 17enne fu rapita con il fratellino che si era aggrappato alle sue gambe nel tentativo di proteggerla, da Filippo Melodia, rampollo della mafia locale con cui era stata fidanzata con il consenso della famiglia. Gente modesta, con qualche vigna. Quando papà Bernardo obbliga la figlia ad interrompere la relazione per la ragazzina e per i suoi genitori comincia un incubo durato fino Santo Stefano, quando Pippo “si prende ciò che considerava suo”.
Franca fu violentata, segregata per otto giorni, abbandonata a se stessa. Il giorno di Capodanno, il padre della ragazza fu contattato dai parenti di Melodia per la cosiddetta “paciata“, un incontro riparatore volto a mettere le famiglie davanti al fatto compiuto. Il padre e la madre di Franca, d’accordo con la polizia, fingono di accettare il matrimonio. Il 2 gennaio, i poliziotti fanno irruzione nell’abitazione dove Franca era tenuta prigioniera, la liberano e arrestano i rapitori. Melodia e i complici sono certi che di lì a poco ci saranno le nozze e quindi l’impunità. Non è così.
Franca Viola non avrebbe cancellato la «vergogna» con un matrimonio riparatore che le consuetudini e persino il codice penale imponevano. Non era mai successo che una donna «disonorata» (non più vergine) rifiutasse di convolare a nozze con il suo violentatore.
Al processo, la difesa tenta di screditare la ragazza, sostiene che era consenziente alla fuitina. «Questo è un processo d’amore», sostiene.