«Ho ucciso John Lennon», così Chapman confessò l’omicidio dell’ex Beatles

L’8 dicembre 1980 l’ex Beatles fu ucciso da un fan, Mark David Chapman a cui, poco prima, aveva firmato la copertina del suo ultimo album: “Double Fantasy”.

Quattro colpi di pistola scrivono la parola fine sulla vita da sogno di John Lennon, ucciso dal gesto inspiegabile di un folle, uno psicopatico. A premere il grilletto della calibro 38 era stato un fan Mark David Chapman. Uno “squilibrato” che ha colpito alle spalle l’ex Beatles, il gruppo che aveva segnato un’epoca, a pochi passi dalla porta della sua residenza di New York, dove viveva con la moglie Yoko Ono e il figlio Sean. La corsa al Roosevelt Hospital è stata vana.

L’Omicidio di John Lennon

Quella mattina dell’8 dicembre 1980, Lennon e Yoko Ono avevano posato per un servizio commissionato da Rolling Stone. «Nessuno la voleva in copertina» raccontò la fotografa di ritratti, Annie Leibovitz, riferendosi all’odiata moglie, accusata di essere stata “la causa dello scioglimento dei Beatles”, ma il celebre autore, una delle più grandi icone della musica mondiale, aveva insistito. La rivista pubblicata il 22 gennaio 1981 sarà una delle più famose di sempre. L’orologio aveva da poco segnato le 15:30, quando la Leibovitz lasciò l’appartamento.

Alle 17:40, una limousine attende Lennon e la moglie davanti all’ingresso del Dakota Building, il lussuoso palazzo sulla 72ª strada, non lontano da Central Park. Dovevano andare nello studio di registrazione: i due stavano lavorando ad un nuovo brano, Walking on Thin Ice, il cui testo – che parla dell’assoluta imprevedibilità della vita e della morte – suona quasi come un tragico presagio.

Ad attenderli fuori dello stabile, come sempre, c’era un gruppo di fan in cerca di autografi. Tra loro si era nascosto Mark David Chapman, ma invece di estrarre l’arma gli porse la penna. Il ragazzo chiese a Lennon una firma sulla copia di Double Fantasy, suo ultimo album. «Is this all you want?» (“È questo tutto quello che vuoi?”), disse. Chapman sorrise timidamente e annuì. Un fotografo Paul Goresh immortalò la scena. Mancano sei ore al delitto.

Poche ore dopo quell’incontro premerà il grilletto. Chapman sparò cinque colpi con un revolver Charter Arms 38 Special. Il primo mancò il bersaglio, gli altri furono fatali. Lennon riuscì a salire cinque scalini, mormorando «I’m shot, I’m shot» (“Mi hanno sparato, mi hanno sparato”), prima di accasciarsi a terra, in una pozza di sangue, tra le braccia dell’amore della sua vita.

Chapman, che aveva chiesto un prestito al suocero per volare a New York, non fuggì. Si tolse il cappotto e si sedette sul bordo del marciapiede ad aspettare. «Do you know what you’ve just done?» (“Sai che cosa hai appena fatto?”), chiese il custode del Dakota Building, il palazzo in cui Roman Polanski girò ‘Rosemary’s Baby’. «Yes, I just shot John Lennon» (“Sì, ho appena sparato a John Lennon”), risposte con assoluta calma, prima di cominciare a leggere un libro, una copia de Il giovane Holden di Salinger, una delle sue ossessioni. L’altra era Lennon, cresciuto senza padre e senza madre (scomparsa nel 1958 investita da un’auto), accudito dalla zia Mimì, un ragazzo povero che dalla periferia di Liverpool era arrivato a conquistare il mondo grazie a quell’incontro con Paul McCartney avvenuto, come nelle migliori favole, quasi per caso.

Alle 23:15, uno dei maggiori songwriter di tutti i tempi viene dichiarato morto. Aveva 40 anni. Scompariva, in quella fredda serata newyorkese, il mito di una intera generazione. Al mondo restavano le sue canzoni, come «Imagine».

La confessione

«Ho sentito qualcuno nella mia testa che diceva: “Fallo, fallo, fallo”», mormorò Chapman, all’epoca 25enne, che si è subito dichiarato colpevole di omicidio di secondo grado. «Ero un nulla totale e il mio unico modo per diventare qualcuno era uccidere l’uomo più famoso del mondo» spiegò in una celebre intervista. «La cosa che mi faceva imbestialire di più – disse – era che lui avesse sfondato, mentre io no. Eravamo come due treni che correvano l’uno contro l’altro sullo stesso binario. Il suo ‘tutto’ e il mio ‘nulla’ hanno finito per scontrarsi frontalmente. Nella cieca rabbia e depressione di allora, quella era l’unica via d’uscita. L’unico modo per vedere la luce alla fine del tunnel era ucciderlo».



In questo articolo: