Aveva appena 37 anni, quando la mafia scrisse la sua condanna a morte. L’unica colpa di Rosario Livatino, passato alla storia come il «giudice ragazzino», era stata quella di essere incorruttibile. Conosceva i segreti dei clan, era una spina nel fianco per la Stidda che voleva difendere i suoi interessi da quel magistrato inattaccabile e, al contempo, voleva mandare un messaggio ai rivali di Cosa Nostra, al capo dei capi, Totò Riina. L’agguato era una prova di forza in una guerra senza esclusione di colpi.
L’omicidio al km 10
21 settembre 1990. A fare da teatro all’omicidio è la statale 640. Il Giudice stava andando in Tribunale, come tutte le mattine. Ogni giorno fa su e giù da Canicattì, dove abita con l’anziana madre ad Agrigento, dove lavora al Palazzo di Giustizia. Stesso orario, stessa strada, stessa sosta per un caffè. Sempre da solo. Non aveva voluto due poliziotti come angeli custodi né passeggeri perché, diceva, se gli fosse successo qualcosa non voleva altre morti sulla coscienza. Non voleva mettere a rischio la vita degli altri.
Era senza scorta quella assolata mattina, quando al km 10, all’altezza del viadotto Gasena, quattro sicari dalla cosca agrigentina affiancano la vecchia Ford Fiesta color amaranto. Sembra un sorpasso un po’ azzardato, ma dal finestrino della Uno bianca che sfiora l’auto del giudice spunta la canna di una mitraglietta.
L’agguato dura non più di novanta secondi, ma Livatino capisce di trovarsi faccia a faccia con i suoi assassini. Frena, prova a ingranare la retromarcia ma è in trappola. Dietro c’è una moto di grossa cilindrata. Alla fine tenta disperatamente di scappare a piedi. Salta il guardrail, si butta nella scarpata per trovare un rifugio sicuro nelle campagne che si affacciano sulla strada, ma la fuga, resa ancor più complicata dal fatto che era stato ferito ad una spalla da una pallottola, dura poco. «Cosa vi ho fatto, picciotti?», sono state le sue ultime parole.
Una volta raggiunto, i sicari lo finiscono usando tre armi diverse. Il magistrato muore, freddato da sette colpi, l’ultimo sul volto. Sparato in bocca per farlo «tacere per sempre».
Il dolore
Davanti a quel lenzuolo bianco, nel punto dove una volta scorreva un fiume e diventato la tomba di un giudice onesto, si forma un capannello di persone: chi piange, chi non ha voglia di parlare, chi sfiora i buchi lasciati dalle pallottole sulla fiancata dalla Fiesta, come se volesse sentire quello che ha provato Livatino negli ultimi minuti della sua vita. C’era anche Giovanni Falcone, con gli occhi lucidi.
«Dietro la bara di Livatino non può nascondersi tutta la magistratura». Le parole del giudice Francesco Di Maggio intervistato dal quotidiano L’Unità provocarono numerose polemiche. Chi era impegnato in prima linea nella lotta contro la mafia si sentiva abbandonato dallo Stato.
Killer e mandanti sono stati individuati e condannati. Fondamentale, fu la coraggiosa testimonianza di Pietro Nava, agente di commercio che in quel momento si trovava sulla statale. Ha dovuto cambiare nome e vita, ma continua a ripete «lo rifarei ancora».
Uno dei sicari, Gaetano Puzzangaro, soprannominato “‘a musca”, la mosca, un vecchio nomignolo di famiglia, nella sua Palma Di Montechiaro, si è pentito in carcere, testimoniando per la causa di beatificazione del giudice.
Primo magistrato beato nella storia della Chiesa cattolica
Livatino, infaticabile e determinato, sceglieva i fascicoli di cui occuparsi per evitare che finissero sulla scrivania di chi aveva famiglia. E pagherà a caro prezzo questa sua generosità. Ma era anche un uomo di fede, una fede gli era valsa il nomignolo di «santocchio». Su appunti, documenti e quaderni è stato trovato spesso un acronimo, «S.T.D.». Fu scambiato per un codice segreto, ma le tre lettere stavano per «Sub Tutela Dei», «sotto la protezione del Signore». Non era un cristiano bigotto, però. Una volta disse: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».