«Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta, ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo…». Era il 30 gennaio 1962, quando una donna vestita a lutto, avvolta in uno scialle nero e con la testa coperta da un velo scrisse una pagina importante nella storia della lotta alla mafia. Quella donna-coraggio con il volto segnato dalle rughe e dal dolore era Serafina Battaglia, vedova, ma soprattutto madre di un ragazzo ucciso.
Quel giorno di fine gennaio si era presentata in un’aula di tribunale per testimoniare nel processo per l’omicidio del figlio Salvatore Lupo Leale. Voleva vendetta, ma l’aveva cercata facendo qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima. Dopo aver baciato il crocifisso, aveva spezzato i codici d’onore, aveva rotto il muro dell’omertà, raccontando tutti gli ingombranti segreti che le aveva confidato il marito Stefanuzzo. Per amore aveva puntato il dito contro tre malviventi locali che avevano ammazzato il suo “Totuccio”, assassinato come il suo patrigno. Una cosa impensabile negli anni Sessanta.
«Mio marito era un mafioso e nel suo negozio si radunavano spesso i mafiosi di Alcamo. Parlavano, discutevano e io perciò li conoscevo uno ad uno. So quello che valgono, quanto pesano, che cosa hanno fatto. Mio marito mi confidava tutto e perciò io so tutto. Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo… I mafiosi sono pupi. Fanno gli spavaldi solo con chi ha paura di loro, ma se si ha il coraggio di attaccarli e demolirli diventano vigliacchi. Non sono uomini d’onore ma pezze da piedi», disse in un’intervista a Mauro De Mauro.
Serafina Battaglia era una donna coraggiosa, ma fa riflettere che nella sua battaglia fu sola. Nonostante per anni non riuscì a trovare alcun avvocato disposto a difenderla, Serafina raccontò tutto senza paura a Perugia, Catanzaro, Bari e Lecce. In tutti quei tribunali dove per “legittima suspicione” si celebrarono centinaia di processi. Parlò di oltre venti omicidi, dell’organizzazione delle cosche locali, dei legami tra le famiglie che avevano frequentato il retrobottega della torrefazione di suo marito. La stampa l’aveva soprannominata “La vedova della lupara” e le pagine di cronaca erano pieni di aneddoti, si racconta del fazzoletto imbrattato del sangue del figlio, degli sputi agli imputati e di quando si era inginocchiata davanti ai giudici.
Ma gli imputati vengono assolti, dopo 17 anni dalla morte del figlio, per insufficienza di prove. Serafina non esce più di casa: accusata di essere “pazza” dai parenti, pare dormisse con una pistola P38 per paura di essere ammazzata. La tengo per difendermi anche se ora la mia arma è la giustizia, disse.
Morì il 10 settembre del 2004, a 84 anni, quasi dimenticata nell’appartamento del quartiere Olivuzza , che lei aveva trasformato in un santuario. Un altare che lei aveva allestito per i suoi morti a cui nessuno aveva dato giustizia.