
Giuseppe Russo Luzza era un ragazzo per bene. Finite le scuole medie aveva deciso di non continuare gli studi, di imparare un mestiere ed era bravo come carpentiere. Anche mamma Teresa e il patrigno Orlando erano onesti lavoratori. Per questo, quando quel ‘maledetto’ 15 gennaio 1994 il 22enne scomparve nel nulla, misteriosamente, nessuno era riuscito a darsi pace. Pino non avrebbe mai fatto preoccupare la sua famiglia. Avvertiva sempre dei suoi spostamenti, dei suoi ritardi. E lo aveva fatto anche quel giorno, con una telefonata alle 15.30. L’ultima perché Giuseppe era stato rapito, ucciso e ‘abbandonato’ in un fosso, dove sarà ritrovato mesi dopo solo perché uno dei suoi assassini si era pentito.
L’idea che Giuseppe Russo fosse stato condannato a morte dalla ndrangheta non aveva sfiorato la mente di nessuno. Né il ragazzo, né la sua famiglia che avevano mai avuto a che fare con la criminalità. E allora quale era la colpa di questo ragazzo, rapito da alcuni sicari, portato lungo una ferrovia, buttato in una fossa, cosparso di benzina e dato alle fiamme? Perché aveva meritato quella fine? Pino ha pagato a caro prezzo il fatto di essersi innamorato di una ragazza, Angela, cognata di un boss di peso di Gerocarne, un piccolo comune in provincia di Vibo Valentia. Un amore impossibile finito ancor prima di iniziare. In quella relazione pulita erano entrati in gioco l’onore e un codice che non perdona. Il boss aveva per la giovane altri progetti, era stata promessa al rampollo di un’altra famiglia malavitosa.
Questioni d’onore e «dignitudine»
Il boss non avrebbe mai accettato il fidanzamento della cognata con un ragazzo ‘normale’. Per lui era un affronto che doveva risolvere per dimostrare «chi comanda». «Dimostrare di avere il controllo sulla famiglia equivale a dimostrare di avere il controllo sul territorio», questo era il comandamento. Questioni d’onore, di «dignitudine», di reputazione che non poteva essere macchiata né rovinata da un ragazzino.
L’omicidio
L’omicidio fu commesso dal latitante di una cosca della Piana di Gioia Tauro per fare “un favore” al boss che lo aveva ordinato. Uno scambio di cortesie. Quel giorno di gennaio del 1994 era un sabato, Luzza fu rapito, portato nei boschi, seppellito in una fossa, cosparso di benzina e bruciato quando era ancora vivo. Mentre le fiamme avvolgevano il suo corpo, uno degli assassini consegnò una pistola ad un 17enne che aveva il compito di dare a Giuseppe il colpo di grazia. Era il suo “battesimo di fuoco”, una “prova di coraggio” necessaria per cominciare la carriera criminale.
Forse Pino sarebbe rimasto sepolto per sempre se il suo carnefice, pentito, non avesse fatto ritrovare il corpo, il 21 marzo 1994, in una zona impervia di Monsoreto di Dinami.
La giustizia ha fatto il suo corso, ma non c’è condanna che possa alleviare il dolore e le lacrime.