“Può accadere di entrare in un Ufficio pubblico, per discutere di un progetto o di una lottizzazione, e invece di sentirsi chiamare architetto o, meglio, architetta, siamo delle signore. Così sui cantieri. Sembra una banalità. È invece l’anticamera di una cultura dura a scomparire che non riesce a fare i conti con la differenza di genere in tutti i campi. Anche in quello delle professioni. Anche nell’architettura». Questa semplice quanto quotidiana considerazione ha spinto Mina Schito, Luigina Antonazzo, Laura Lezzi, Tiziana Quarta, fondatrici del gruppo “AltrArchitettura”, a promuovere una ricerca sul campo finalizzata a comprendere cosa significhi essere “donne architette” nel Salento. Il questionario, infatti, è il risultato dell'impegno condiviso delle quattro architette che, affiancate da una psicologa ed un'avvocatessa, si sono interrogate ed insieme hanno riflettuto sulla professione e su altre specifiche questioni abitualmente riscontrabili nell'ambiente di lavoro.
C’è tempo fino al 31 luglio per rispondere alle settanta domande raggruppate in tre aree tematiche – Qualità del lavoro, Relazioni con gli altri soggetti coinvolti nella prestazione lavorativa, Accessibilità dell'informazione – diffuso con il patrocinio dell’Ordine degli Architetti PPC di Lecce. Per permettere la narrazione delle singole soggettività, il test si conclude con tre domande "aperte", riservate ad esprimere esperienze, testimonianze, suggerimenti. Il questionario è disponibile presso la segreteria di piazza Mazzini o scaricabile direttamente dal sito dell’Ordine.
«Ancora oggi – proseguono le promotrici della ricerca – molte professioniste salentine incontrano difficoltà per il solo fatto di essere donne». Eppure ci sono culture che possono essere un esempio. Una lezione esemplare, infatti, arriva dagli Hopi, la popolazione indigena degli altopiani del Colorado, presso i quali l'edilizia è stata fino ai giorni nostri una esclusiva pratica femminile, tanto da considerare la cosa più ridicola al mondo un uomo impegnato a realizzare una casa. «Un esempio importante – concludono le architette Mina Schito, Luigina Antonazzo, Laura Lezzi, Tiziana Quarta – che dice come la diversità biologica tra uomo e donna non giustifica in alcun modo le discriminazioni in ambito lavorativo e come siano le eredità culturali a pregiudicare le opportunità».
La raccolta e l’analisi dei dati sarà compiuta dallo stesso gruppo di lavoro. L’esito dell'indagine, invece, sarà oggetto in autunno di una tavola rotonda pubblica.
