A proposito del migrante economico: se questo è un uomo

Le colonne di LecceNews24.it ospitano l’editoriale di Enrico Mauro, ricercatore di diritto amministrativo presso il Dipartimento di storia, società e studi sull’uomo dell’Università del Salento. L’argomento verte sul fenomeno migratorio, partendo dalle parole di Papa Francesco.

Una delle tesi più abiette del dibattito politico, italiano ed europeo, di questi mesi è quella secondo cui, mentre chi fugge da una guerra (ad esempio dalla Siria) va accolto, chi fugge ‘solo’ dalla fame, dalla povertà, dalla disperazione va respinto o, come dicono i sostenitori più moderati, aiutato «a casa sua». La tesi è forse vecchia come il mondo, ma il sapore di antichità non la rende meno abietta. E naturalmente non è solo europea (basti pensare a Trump, improponibile candidato alla presidenza degli Stati Uniti), ma non diventa meno abietta se declamata in altra lingua. Tra parentesi: non tutti i poveri del mondo vengono in Europa. Anzi, molti di più si muovono lungo altre rotte (ad esempio dal Messico agli Stati Uniti o dall’India al Qatar).

Arriveremo mai a comprendere che non esistono «casa mia » e «casa sua»? Si nasce in Europa o negli Stati Uniti per caso, non per merito. E si nasce in Paesi magari senza guerra ma affamati per caso, non per demerito. Quale Dio ha mai detto: «La terra dove nasci è solo tua. Chiudila a chiave se credi»? Saremo mai in grado di metterci nei panni altrui? Se io, proprio io fossi nato in un Paese affamato, riuscirei mai a comprendere perché non vengo accolto, perché rischiare la vita per una guerra è diverso dal rischiarla per fame?

Esistono famiglie italiane che non abbiano un nonno, un padre, un figlio, un nipote, un cugino ecc. che sia dovuto migrare (in Svizzera, Germania, Francia, Belgio,Inghilterra, Stati Uniti, Argentina ecc.) per cercare futuro? Il sottoscritto, per fare un solo esempio, è figlio di un commercialista che da ragazzo aveva lavorato in Svizzera, nipote di un nonno che in Svizzera aveva fatto il muratore per una vita, fratello di uno scienziato che lavora da molti anni a Londra dopo aver lavorato a Chicago, cugino di un fotografo che da molti anni lavora a Barcellona. Perché questi fortunati migranti per lavoro dovrebbero essere diversi dal migrante per fame che viene dall’Africa o dall’Asia? C’è qualcuno che si senta in grado di rispondere a tale quesito senza ricorrere allo pseudoargomento «casa mia/casa sua»? O allo pseudoargomento «i soldi sono pochi, quindi prima a chi è nato qui». In base a quest’altro ‘ragionamento’, quando in una famiglia arriva il secondo o il terzo figlio, poiché i soldi sono pochi, il secondo mangia solo dopo che si è saziato il primo e il terzo solo dopo che si è saziato il secondo, il secondo resta nudo finché non si è vestito il primo, il terzo dorme in casa solo dopo che si è trovato spazio per il secondo, e così via.

Lo scorso 6 maggio, in Vaticano, parlando davanti ai vertici delle istituzioni dell’Unione Europea, nonché a Renzi e Merkel, in un discorso che ha fatto riecheggiare quello tenuto da Martin Luther King a Washington nel 1963 («Ho un sogno»), il Papa, a proposito del migrante, senza distinguere tra il migrante politico e quello ‘meramente’ economico, ha detto: «Sogno un’Europa in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano». Ha dunque parlato, certo non a caso, del migrante in quanto «essere umano», la cui dignità non varia a seconda della cittadinanza.

E l’Unione, invece, che era lì, disorientata, ad ascoltare il Papa? E Italia e Germania, che erano lì, altrettanto attonite? Vediamo in breve. Tramite un accordo di ‘ispirazione’ tedesca con la Turchia, datato 18 marzo, l’Unione sta tentando di ridurre drasticamente il flusso migratorio dalla Turchia alla Grecia. In cambio dei suoi sforzi per tenersi i migranti economici la Turchia, che non è mai stata così poco democratica come di questi tempi (i giornalisti turchi sono letteralmente imbavagliati e il Primo Ministro è stato letteralmente defenestrato dal Padrone dello Stato), riceve molto, moltissimo denaro (nostro) e la promessa di un’accelerazione del processo che dovrebbe condurre — in deroga alla democrazia — all’adesione della Turchia all’Unione.

L’accordo è complicato sulla carta e ancora più complicato da attuare. Ma qui non interessa tanto se stia funzionando o meno. Interessa di più sottolineare che accordi come questo non risolvono i problemi di chi scappa dalla morte per fame, ma solo di chi ha paura di accoglierli. Trattiamo i profughi economici come la polvere quando la mettiamo sotto il tappeto. E il tappeto, in questo caso, si chiama Turchia. Chi se ne importa della fine che faranno queste persone, che certo non avevano lasciato i loro Paesi per restare in Turchia e tanto meno per essere rispedite dove pativano la fame.
Fortunatamente, però, il 15 aprile, il Governo italiano ha elaborato un «contributo di pensiero» — così chiamato, con la solita modestia, nella lettera con cui il Presidente del Consiglio lo invia ai vertici dell’Unione —, uno schema (in inglese) di «migration compact» («accordo sulla migrazione», ma sarebbe meno ipocrita tradurre «contro la migrazione»), in cui si propone che l’Unione stipuli con i Paesi di provenienza e di transito dei migranti economici accordi analoghi a quello con la Turchia, in modo da ridurre i flussi («reduction of flows towards Europe»), cioè da bloccare i fuggitivi nei Paesi da cui cercano di fuggire.

Non esattamente quello che auspicava il Papa. Chi se ne importa se queste persone rischiano di essere rispedite al punto di partenza o di restare intrappolate per anni in centri di raccolta (più o meno differenziata: spazzatura umana) di Paesi magari meno ospitali di quelli di partenza. Per non dire dei rimpatri («Cooperation on returns/readmissions») di coloro che hanno la fortuna di sopravvivere alle marce sotto il sole o nel fango e/o alle traversate su imbarcazioni su cui noi non saliremmo nemmeno per scherzo.

In questi documenti l’accento è posto soprattutto su terroristi e scafisti, cui ovviamente va data una caccia spietata. Quanto ai migranti economici, ci si preoccupa di loro, non per loro: ci si preoccupa che ci invadano, non che muoiano di fame. Li si chiama «irregolari». Orribile ipocrisia del linguaggio del diritto e della politica internazionali: che c’è di «irregolare» nell’aver fame, nel fuggire verso pane, lavoro, vita dignitosa, verso un barlume di speranza? Chi di noi non lo farebbe al loro posto? Quanti di noi l’hanno già fatto? Può mai essere «irregolare» la speranza? Evidentemente sì, quando non è la nostra.

Ammesso pure che questi accordi, entro qualche anno, si concludano e che, entro qualche decennio, incomincino a dare i primi frutti, che fine fanno i migranti che — oggi — fuggono dalla povertà, dalla disoccupazione, dalla morte per fame? A questo interrogativo, nell’accordo dell’Unione con la Turchia e nella proposta italiana di accordi con altri Paesi terzi non si trova uno straccio di risposta.

Tanti complimenti al Papa per il suo discorso, ma l’Unione chiude gli occhi. Aspettando Godot.

Editoriale a cura di Enrico MAURO



In questo articolo: