Aldo Moro, il rapimento in via Fani che ha cambiato la storia d’Italia

Era il 16 marzo 1978, quando in quella che divenne nota come strage di via Fani fu rapito il presidente della DC Aldo Moro. Data che, insieme a quella del 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del cadavere in via Caetani, rimarrà indelebile nella memoria degli italiani.

Sono trascorsi esattamente 43 anni da quando in via Fani, nel quartiere Cammilluccia a Roma, un commando composto da circa 19 brigatisti rapì il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro. Le auto della scorta aspettano lo statista magliese con il motore acceso fuori dal civico 79. Destinazione? Montecitorio, alla Camera per votare la fiducia al quarto governo Andreotti. Qualcuno sostiene che era lui il vero bersaglio delle Br, ma era ‘troppo protetto’ per organizzare un agguato. Fatto non vero. In quegli anni, tutte le mattine, molto presto e sempre alla stessa ora, il presidente del Consiglio va a messa da solo e a piedi passeggiando per il centro di Roma semideserto.

Moro sale sul sedile posteriore della Fiat 130 blu ministeriale e la ‘colonna’ inizia il suo viaggio verso la strage. All’incrocio la vettura del Presidente tampona una una Fiat 128 familiare di colore bianco con targa falsa del Corpo Diplomatico (CD 19707). Le lancette dell’orologio segnano le 9.02.

Ore 9:02. Il sequestro

Quattro uomini vestiti con uniformi Alitalia, nascosti dietro le siepi, sbucarono sparando quasi 100 colpi in appena tre minuti. Sotto il fuoco incrociato cinque uomini della scorta morirono tragicamente: il Maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi e l’appuntato Domenico Ricci che si trovavano a bordo della Fiat 130 di Moro. E ancora il Brigadiere Francesco Zizzi, gli agenti Raffaele Jozzino e Giuliano Rivera che erano su un’altra vettura.

«Moro venne sbattuto di peso su una 128 blu che intanto era sopraggiunta. Poi si formò una specie di corteo: in testa una 132, seguita da due 128, una bianca e una blu». Secondo il racconto dei brigatisti, le auto vengono abbandonate in via Licinio Calvo. Cominciò così uno dei periodi più bui della storia dell’Italia repubblicana, una pagina triste, forse la più triste di quegli anni.

All’epoca non esisteva internet, né i social network. Eppure quelle immagini, condivise e ritrasmesse, restano scolpite nella memoria collettiva di chi le ha vissute in prima persona, di chi le ha apprese dalle pagine dei libri di scuola, dai documentari trasmessi in tv, dalle ricostruzioni fatte in attesa di scoprire la verità. Una verità che è ancora ben lontana dall’essere svelata del tutto.

Alle 9.25 la notizia dell’agguato fa irruzione nelle case degli italiani grazie ad un’edizione straordinaria del Gr2.  Pochi minuti dopo, alle 10.00, i brigatisti rivendicano la strage usando quell’espressione ormai scolpita nella memoria: “attacco al cuore dello Stato“.

Parlare del «caso Moro» non è semplice. Significa addentrarsi in un ramificato tunnel di segreti, omissioni, interrogativi, domande che non hanno ancora trovato una risposta. Perché i brigatisti hanno scelto via Fani? Perché non hanno prelevato il Presidente allo Stadio dei Marmi, dove andava a passeggiare tutte le mattine accompagnato solo dal caposcorta? Perché tanto sangue? Perché rischiare?

Da una Roma blindata inizia il periodo più buio

Le ricerche per trovare lo statista partirono subito dopo l’eccidio, forse con il piede sbagliato. Un’imponente caccia all’uomo si era aperta mentre l’Italia sconcertata si fermò per protesta. Dal 16 marzo al 10 maggio solo nella capitale furono impiegate 172mila unità tra carabinieri e poliziotti che effettuano 6mila posti di blocco e 7mila perquisizioni domiciliari controllando in totale 167mila persone e 96mila autovetture. Qualcuno dirà che si è trattato soprattutto di «operazioni di parata». Fu un labirinto senza uscita.

Nemmeno i servizi segreti di tutto il mondo riuscirono a trovare Moro. In quei giorni, parallelamente al dibattito drammatico fra coloro che sostenevano la necessità di trattare con le Brigate Rosse e coloro invece che si rifiutavano di scendere a compromessi, furono le lettere del leader della Dc, a commuovere l’Italia. Gli originali non vennero mai trovati, ma dalle fotocopie delle missive emerge la personalità, la sofferenza e la dignità di un uomo che pagò con la vita la sua dedizione allo Stato e che non trovò conforto in un mondo politico lontano dalla cosiddetta “prigione del popolo” in cui era ostaggio.

“Ufficialmente” il politico originario di Maglie fu tenuto sotto sequestro in un appartamento al civico numero 8 di via Camillo Montalcini, nel quartiere Portuense, una zona all’epoca controllata dagli uomini della banda della Magliana. Era intestato alla brigatista Anna Laura Braghetti, la ‘vivandiera’ che lo aveva acquistato nel 1977 con i soldi del sequestro di Pietro Costa. Ancora oggi sono tanti i dubbi sul covo che, probabilmente, non è stato l’unico: c’è chi ipotizza che sia tenuto prigioniero sul litorale, tra Focene e Palidoro, come indicherebbero i sedimenti trovati sugli indumenti del politico.

Su quei dannati 55 giorni di prigionia si è detto e scritto di tutto. Il 9 maggio 1978 il cadavere del presidente democristiano venne ritrovato dentro il bagagliaio di una Renault 4 a Roma, in via Caetani, una piccola strada nel cuore della vecchia capitale, ad un passo da via delle Botteghe Oscure (dove c’è la sede del Pci) e non lontano da piazza del Gesù (dove c’è quella della Dc). Il corpo era rivestito con gli stessi abiti che indossava la mattina del 16 marzo. A dare l’annuncio una telefonata anonima.

Alla notizia della morte di Aldo Moro, i parenti più stretti diffusero questo comunicato: «La famiglia desidera che sia pienamente rispettata dalle autorità dello Stato e di partito la precisa volontà di Aldo Moro. Ciò vuol dire: nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso; nessun lutto nazionale, né funerali di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia».

Stiamo ancora aspettando.



In questo articolo: