«Quando si muore, si muore soli» cantava Fabrizio De Andrè nel brano “Il Testamento”. Parole con cui, nel 1963, il cantautore genovese ironizzava a modo suo sulla morte. Parole che, nel 2020, pesano come macigni.
Il Coronavirus, questo nemico invisibile che ha cambiato le “abitudini” degli italiani e messo in luce le fragilità, ha stravolto anche il culto dei morti, quei ‘riti’ che aiutano in qualche modo ad elaborare il dolore, ad accettare il distacco.
Le regole imposte per contenere la diffusione del Covid19 hanno reso straziante l’ultimo saluto alle persone care. Si muore da soli, lontano dai familiari ai quali viene negata un’ultima carezza, un abbraccio. Resta una preghiera e il dolore provato davanti quelle porte sbarrate della terapia intensiva, inaccessibili per ‘sicurezza’.
Le infermiere e gli operatori sanitari, quando possono, leggono ai contagiati i bigliettini colorati dai nipoti, scritti dai figli lontani, ma quando chiudono gli occhi sono completamente soli.
Straziante è anche la sepoltura. Nessuna messa, nessun funerale, nessun abbraccio davanti alla tomba. Parenti e amici piangono in ‘quarantena’, nelle proprie case.
Lo stesso destino è toccato sabato a Giuseppe Marini, 40enne, primo caso di Covid-19 a Surbo. Non ce l’ha fatta, non ha vinto questa battaglia e da quando la notizia della sua scomparsa ha cominciato a fare il giro del paese, la comunità si è stretta intorno alla famiglia del giovane. Lo ha fatto nel modo in cui ha potuto farlo, virtualmente, con centinaia di messaggi sui social.
Anche i componenti della “Banda di Surbo” hanno voluto accompagnare Giuseppe nel suo ultimo viaggio. In poche ore hanno eseguito, ognuno dalle proprie case, l’Ave Maria del compositore austriaco Franz Schubert, registrando un video messaggio di addio per il concittadino scomparso prematuramente.
“Sei andato via, ma ingiustamente! Abbiamo voluto accompagnarti con la nostra umile musica, che seppur realizzata velocemente, è stata fatta con il cuore!”
