Due giorni di ordinaria follia: contro la mafia nel ricordo di Paolo Borsellino

Ricorre oggi, 19 luglio, l’anniversario dall’attentato a Paolo Borsellino e agli uomini della sua scorsa che hanno tragicamente perso la vita lottando contro la Mafia.

Era una calda domenica quel 19 luglio del 1992.

La mattina avevamo beneficiato di qualche ora libera da dedicare alle nostre rispettive famiglie, nel pomeriggio avremmo accompagnato Paolo a casa di sua madre.

Alle 15.30 ci ritroviamo in commissariato per preparare le auto e il nostro equipaggiamento scherzando tra una battuta e l’altra e pensando alle ferie che ci aspettavano.

Il percorso era sempre lo stesso, dal commissariato ci recavamo a casa di Paolo per poi dirigerci verso il tribunale o altri luoghi istituzionali dove lui doveva presenziare.

Intorno alle 16.30 eravamo sotto casa sua e nell’attesa mille pensieri mi passavano per la testa. Uno su tutti mi portò a circa 2 mesi prima, a quel dannato 23 maggio, quando alcuni colleghi, Vito, Rocco e Antonio, che erano di scorta al Giudice Falcone, con lui e sua moglie Francesca (magistrato anche lei) persero la vita in quella che è meglio conosciuta come la “Strage di Capaci”. Neanche il tempo di ritornare con la mente al presente che sento il portone che si apre. Eccolo Paolo, sempre con la sua inseparabile valigetta e quel sorriso sempre più stanco ma sempre pronto a rassicurarci come un padre farebbe con i propri figli.

Saliamo in macchina, direzione Via D’Amelio, al civico 21 dove abita la madre.

Arriviamo poco prima delle 17.00, il caldo è insopportabile e la strada è silenziosa come è normale che sia a quest’ora di una domenica d’estate. Al nostro arrivo Via D’Amelio è piena di auto nonostante le ripetute richieste di inibirla al transito ed alla sosta, ma si sa, per ottenere qualcosa c’è la solita trafila burocratica da rispettare anche quando in gioco ci può essere la vita di una persona condannata a morte da Cosa Nostra.

“Sta strada è peggio di una tonnara!” così la descrisse un residente con il quale avevo scambiato qualche parola pochi giorni prima.

Scendiamo dalle auto accompagnando Paolo al portone del condominio dove abita sua mamma.

Ad un tratto il silenzio e la calma apparente di quella via vengono interrotti da un boato mai udito prima. In pochi attimi veniamo travolti da un vento infuocato che nulla ha a che vedere con lo scirocco di questi giorni.

Non vedo e non sento più niente.

Il caldo estivo di pochi secondi prima era solo un lontano ricordo. Riapro gli occhi, mi rialzo. Vedo Paolo e gli altri colleghi che si rialzano, stiamo tutti bene

A un certo punto però vedo anche il Giudice Falcone insieme a Vito, Rocco e Antonio che ci vengono incontro ad abbracciarci.

Eravamo morti.

Quell’Agenda Rossa

Quella domenica l’Italia si divise in due. Da un lato c’era chi piangeva i suoi eroi, dall’altro c’era chi gioiva perché continuava a farla franca e continuava a nascondere verità scomode come quelle verità scritte nella famosa Agenda Rossa di Paolo dalla quale non se ne separava mai e che nessuno oltre a lui ne conosceva il contenuto.

Quell’Agenda Rossa diventata ormai simbolo di quella “[…]bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità. (Paolo Borsellino)”. 

Quell’Agenda Rossa che dopo l’attentato sparì e che non venne più ritrovata. Quell’Agenda Rossa che avrebbe provocato un terremoto politico e istituzionale senza precedenti e che ora viene sventolata con forza dalle nuove generazioni sulle quali Paolo poneva tutte le sue speranze per un Italia migliore e giusta.

Prima l’attentato di Capaci del 23 maggio, poi quello di Via D’Amelio a Palermo del 19 luglio. Le stragi di quei 2 giorni di ordinaria follia fecero capire anche a chi era a Roma che quel male invisibile esisteva e poteva manifestarsi nel suo lato peggiore, quello che non si poneva domande se per raggiungere un obiettivo occorreva uccidere persone e devastare famiglie. Quel lato peggiore uscito fuori da un’intercettazione tra due mafiosi in cui pianificavano un attentato su una spiaggia di Palermo dove uno dice all’altro: “e se ci sono bambini?” e l’altro risponde: “E allora? Anche a Beirut muoiono i bambini”. Non si fermavano davanti a niente forti della paura, dell’omertà e del consenso che erano riusciti a iniettare nella gente comune e non solo.

Fu grazie al sacrificio di uomini e donne dello Stato che iniziò l’operazione “Vespri Siciliani”, così chiamata in ricordo della ribellione scoppiata a Palermo sul finire del 1200 per scacciare i francesi dall’isola. Questa volta però c’era una piaga ben peggiore da combattere che, a differenza dei francesi, restava sottocoperta e colpiva all’improvviso. Per questa guerra lo Stato mise in campo tutti i suoi uomini migliori.

Qualche mese dopo, insieme ad altri colleghi e magistrati, venimmo a sapere che alcuni mandanti ed esecutori dell’infamia del 19 luglio, di quella del 23 maggio e di tante altre degli anni prima, vennero arrestati, processati e condannati.

Finalmente il nostro sangue e le lacrime dei nostri cari non sarebbero più stati un sacrificio inutile. Un po’ di giustizia era stata fatta, potevamo iniziare a riposare in Pace.

Dedicato a chi ha lottato per la Giustizia anche a costo della vita