Il lavoro del ricercatore nelle Università: forse non tutti sanno che…

Il ricercatore oggi svolge il proprio lavoro non grazie al supporto dell’università, ma solo per passione, per senso del dovere e perché spera che i suoi studenti ne traggano qualche beneficio.

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Per quanto possa suonare strano che lo si dica in questi giorni, in cui i mezzi di comunicazione non sono più concentrati sullo sciopero degli appelli universitari, ma sull’indagine della Procura di Firenze sulla corruzione universitaria, il sistema universitario italiano non sta agonizzando principalmente per la corruzione (peraltro imperdonabile tra i professori universitari quanto tra politici, magistrati, militari, medici ecc.), ma per lo strangolamento perpetrato dalla politica a danno dei professori-ricercatori.

All’università ormai l’ossigeno finanziario è quasi finito e quello che resta è distribuito secondo criteri assolutamente arbitrari, oltre che – non certo per caso – generalmente favorevoli alle principali università settentrionali.

Forse non tutti sanno che nell’università italiana il ricercatore/la ricercatrice che voglia stare al passo con le pubblicazioni relative ai suoi interessi scientifici deve comprare i libri (qualche volta anche le riviste) di tasca propria, perché le procedure per l’acquisto dei libri, quando i soldi per comprarli ci sono – e di solito non ci sono – hanno tempi incompatibili con le esigenze della ricerca.

Forse non tutti sanno che nell’università italiana il ricercatore/la ricercatrice che si procuri un libro (introvabile in qualunque libreria) tramite prestito interbibliotecario (ossia facendolo arrivare da una biblioteca di altra università) trova più semplice, anche se meno economico, farselo fotocopiare da una copisteria che fotocopiarlo da sé in università, dove, a parte il tempo che perderebbe, difficilmente troverebbe una fotocopiatrice funzionante, munita di carta, non occupata e non chiusa a chiave.

Forse non tutti sanno che nell’università italiana il ricercatore/la ricercatrice che abbia bisogno di un nuovo computer e di una nuova stampante può non riuscire a farseli comprare dall’università ed essere costretto a comprarli di tasca propria (insieme a cestino per rifiuti, libreria ecc.).

Forse non tutti sanno che il ricercatore/la ricercatrice che debba pubblicare i propri lavori in una lingua straniera e che, pur conoscendo bene la lingua, non è madrelingua deve pagare di tasca propria la revisione dei testi da parte di un/a madrelingua.

Forse non tutti sanno che nell’università italiana il ricercatore/la ricercatrice che debba tenere una relazione a un convegno fuori sede può vedersi costretto/a a scegliere se rinunciare all’invito adducendo la mancanza di fondi o magari, se si vergogna di essere sincero, problemi di salute o famiglia più o meno gravi oppure se svolgere la missione (viaggio, alloggio, vitto, eventuale iscrizione al convegno…) a proprie spese.

Forse non tutti sanno che nell’università italiana il ricercatore/la ricercatrice che voglia pubblicare un libro con un buon editore è tenuto/a, salvo che non si prevedano vendite esorbitanti, a pagare la pubblicazione con fondi che l’università potrebbe non mettere a disposizione. Cosicché il ricercatore potrebbe anche, se non svolge un altro lavoro o non è ricco di suo, dover rinunciare a pubblicare.

Naturalmente non sono finiti gli esempi: è solo finito lo spazio.

Questo per dire che nell’università italiana il ricercatore/la ricercatrice fa il proprio lavoro non grazie al supporto dell’università, bensì nonostante il mancato supporto dell’università. Ossia lo fa per passione, per senso del dovere e perché spera che i suoi studenti (e magari non solo loro) ne traggano qualche beneficio.

Poi, però, in base alle superstizioni meritocratiche, Ministero e ANVUR (il braccio armato del Ministero) pretendono di valutare ossessivamente un lavoro che il ricercatore/la ricercatrice non è affatto messo/a in condizioni di svolgere. E non si aspira a condizioni ottimali, ma qui si è sempre più lontani da condizioni ragionevolmente dignitose.

Poi qualcuno si meraviglia se il ricercatore/la ricercatrice a un certo punto si ricorda di esistere e, considerato anche che negli anni della crisi economica lo/a si è trattato/a molto peggio di tutti gli altri pubblici dipendenti – ma proprio di tutti -, decide di fare, in piena legittimità e forse con garbo eccessivo, ciò che non ha mai fatto: lo sciopero dell’appello.

Davide Borrelli (Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli)
Guglielmo Forges Davanzati (Università del Salento)
Eugenio Imbriani (Università del Salento)
Enrico Mauro (Università del Salento)
Marialuisa Stazio (Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale)



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