Merito anche…della fortuna: perché la meritocrazia tende a non riconoscerla e perché è importante riconoscerla

Proseguono le riflessioni sulla ‘meritocrazia’ di Enrico Mauro, docente universitario di Diritto Amministrativo dell’Università del Salento. Quanto pesa la ‘fortuna’ sulle persone di successo?

In un libro dell’anno scorso un economista statunitense tenta di decostruire una delle più salde convinzioni meritocratiche, quella secondo cui chi vince una competizione di qualunque tipo vince esclusivamente o quasi per merito. E, in effetti, sappiamo tutti per esperienza quanto è difficile incontrare qualcuno che, ottenuto un successo, sia disposto a riconoscere di essere stato non solo bravo ma anche considerevolmente fortunato.
 
Le persone di successo sono spesso molto dotate e molto determinate, ma tendono a minimizzare il ruolo della fortuna e a massimizzare quello dello sforzo, dell’esercizio perseverante del talento. Il riconoscimento della rilevanza del ruolo della fortuna nei loro successi non solo danneggerebbe la loro spesso straripante autostima, quell’ottimismo, a volte ingenuo, che costituisce la loro marcia in più, ma soprattutto costituirebbe un argomento contro le proporzioni spesso esagerate dei loro compensi: i compensi esagerati sono tanto più ingiustificabili e intollerabili quanto più i risultati del lavoro sono dovuti alla sorte. In altri termini, il caso, a differenza del duro lavoro, non merita ricompensa, per cui occorre nasconderlo per poter avere diritto alla ricompensa più alta possibile.
 
Ma perché sarebbe importante che il contributo della fortuna fosse più frequentemente e apertamente riconosciuto? Sarebbe importante non solo e non tanto perché chi lo riconosce appare più umile, onesto, simpatico, ma anche e soprattutto perché chi lo riconosce è psicologicamente e moralmente più propenso a condividere il proprio successo con i meno fortunati e con gli sfortunati.
 
Per dirla ancora più esplicitamente: chi non esita a riconoscere di essere stato anche fortunato è più probabile sia disponibile a politiche fiscali, sociali ecc. le quali, come vuole la Costituzione italiana (si vedano specialmente gli artt. 3, c. 2: eguaglianza di fatto; e 53, c. 2: sistema tributario progressivo), tengano conto sia della sfortuna genetica che di quella economica, familiare, sociale, culturale, e dunque puntino a ridurre le differenze tra chi, non per merito ma per fortuna, è nato con i geni ‘giusti’ e chi no, tra chi, non per merito ma per fortuna, è vissuto nella famiglia ‘giusta’, nella società ‘giusta’, nel periodo ‘giusto’ e chi no.
 
Non si vuole negare che chi lavora duramente ha spesso successo per questo motivo. Ma si dovrebbe anche riconoscere che moltissimi, pur lavorando duramente o anche più duramente, non hanno successo o lo stesso successo. E le politiche di una società giusta dovrebbero non far piovere sul bagnato, vale a dire non potenziare gli effetti della fortuna, ma ridurre, se non minimizzare, gli effetti della sfortuna. Perlomeno se per società giusta, armonica, serena, stabile intendiamo – ed è un obiettivo minimo – quella in cui non ci sono troppi troppo poveri e pochissimi troppo ricchi.
 
di Enrico Mauro