“La meritocrazia spegne il piacere del lavoro”. L’intervento di Enrico Mauro

Riflessioni su lavoro e meritocrazia nel pensiero di Enrico Mauro, ricercatore di diritto amministrativo dell’Università del Salento, raccolto sulle colonne di LecceNews24.it

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I lavoratori, pubblici e privati, sottoposti a regimi cosiddetti meritocratici di ‘incentivi’ e disincentivi cessano di lavorare per ragioni intrinseche al lavoro man mano che questi regimi si fanno più pervasivi, man mano che le procedure di ‘valutazione’ del lavoro si moltiplicano. Cessano, cioè, di lavorare per dovere, piacere, passione, missione. E iniziano a lavorare esclusivamente per non perdere il posto, ottenere il rinnovo del contratto o un ‘incentivo’, aumentare la retribuzione.

Il settore pubblico ha ricevuto tale impronta efficientistica da quello privato e ora vivono questa situazione tutti i dipendenti di pubbliche amministrazioni. Nel caso dei ricercatori universitari e degli enti di ricerca il regime meritocratico-‘valutativo’ raggiunge probabilmente vette di stupidità altrove inarrivabili, ma la pericolosità degli analoghi regimi incombenti su docenti scolastici, magistrati, medici è almeno altrettanto preoccupante.

Il caso dei medici è certamente il più facile da afferrare per chi non mastichi questi temi. Si provi a immaginare le conseguenze di una normativa che ‘premi’ i medici che concludano positivamente il maggior numero di interventi chirurgici e non i medici che tentino gli interventi più difficoltosi. Tutti opererebbero solo i pazienti non problematici e lascerebbero quelli problematici in balia del destino. Oppure si provi a immaginare le conseguenze di una normativa che ‘premi’ i medici di pronto soccorso che trattino i pazienti nel più breve tempo possibile. I medici più frettolosi prenderebbero i ‘premi’, ma costringerebbero molti pazienti a tornare al pronto soccorso poco dopo essere stati dimessi; mentre i medici più scrupolosi non otterrebbero alcun ‘premio’. Come dire che in regime meritocratico-‘valutativo’ non vengono ‘premiati’ i medici che risolvano problemi di salute, bensì quelli che risolvano problemi burocratici, quelli, cioè, che svuotino sale d’attesa. E pazienza se i pazienti muoiono a casa.

Si provi ora a immaginare quali conseguenze possa produrre un regime meritocratico-‘valutativo’ su un lavoro come quello del docente, che dovrebbe coltivare studenti per amore del proprio lavoro, per il piacere di vederli maturare ben prima che per lo stipendio. Infine, anche se è un po’ più difficile, si provi a immaginare quali conseguenze possa produrre un analogo regime su un lavoro come quello del ricercatore scientifico. Ormai gli si chiede di lavorare per conseguire la stabilità del posto, la cosiddetta retribuzione di risultato, incentivi e finanziamenti. Come potrebbe, ora che è tutto proteso verso obiettivi burocratici, estrinseci, direttamente o indirettamente monetari, continuare a lavorare per il gusto di lavorare, per la soddisfazione di far avanzare la ricerca, per il mero piacere di formulare e verificare un’ipotesi, per la sola meraviglia di una trovata brillante?

Il nuovo modo di lavorare spegne la passione per il lavoro sia del docente che del ricercatore, sia del medico che del magistrato. Il nuovo modo di lavorare rimette in discussione la personalità di ognuno di costoro. Il nuovo modo di lavorare produce, in una Repubblica costituzionalmente fondata sul lavoro, lavoratori a cui non interessa più il lavoro come fonte di soddisfazioni spirituali, morali, ma solo di soddisfazioni materiali, monetarie.

Non si lavora più per essere qualcuno che fa del bene a qualcun altro, ma per poter riempire il carrello al centro commerciale. La spinta motivazionale per il lavoro non è più il lavoro stesso, l’orgoglio procurato dal farlo bene, ma va cercata in ragioni estrinseche: in minacce legali, in promesse finanziarie, retributive, previdenziali.

Non è esattamente il lavoro a cui pensavano i Padri costituenti quando hanno scritto: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (art. 4, c. 2). «Scelta» è vocazione, e la vocazione non conta più nulla.

ENRICO MAURO
Ricercatore di Diritto Amministrativo dell’Università del Salento



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