Sant’Antonio e il fuoco: storia di un monaco che donò agli uomini le fiamme del diavolo

Il 17 gennaio è Sant’Antonio Abate. Ripercorriamo la storia dell’eremita egiziano, considerato il fondatore del monachesimo cristiano.

Quello del fuoco, si sa, è un culto ancestrale. È presente nella simbologia dei riti di ogni epoca, uno fra tutti quello della notte di Pasqua in cui, la benedizione del fuoco nuovo, annuncia agli uomini la risurrezione di Cristo e la sua vittoria sulla morte. Ed è proprio questo suo essere, da sempre, percepito come elemento purificatorio, capace di morte e rinascita, distruzione e vita ad avergli permesso di giungere, in quanto tale, fino ai giorni nostri. Ma, quando si parla di fuoco di Sant’Antonio, le cose assumono significati diversi perché diverse sono le accezioni che, nei secoli, si sono intrecciate a questo binomio.

Superstizione? O, addirittura, malattia? Un po’ tutto e un po’ niente, forse, anche se, una ragione a questa forte simbiosi deve pur esserci ed è probabilmente nella figura dell’anacoreta egiziano che si trova la soluzione dell’enigma.

Considerato il fondatore del monachesimo cristiano, fin da che era ancora in vita, i devoti gli hanno raccomandato la cura di chiunque lavorasse col fuoco, questo perché, come vuole la leggenda, fu lui che, sceso negli inferi a contendere al diavolo alcune anime, ne ritornò col suo bastone che ardeva delle fiamme diaboliche e, non avendo gli uomini di che scaldarsi, gliene fece dono accendendo una catasta di legno che, di fatto, fu la prima fòcara.

Una sorta di Prometeo della cristianità, insomma.. ma non solo! Quella dell’associazione del fuoco a Sant’Antonio, non è che una delle tante tradizioni che, come l’Epifania e l’accensione delle Quaremme, scandivano il passaggio dall’inverno alla primavera e, quindi, al rifiorire della vita dopo le ristrettezze dei mesi freddi. Da qui, perciò, il suo accostamento al Carnevale che, in passato, segnava l’inizio del periodo più rigido dell’anno e, soprattutto, delle privazioni (dal latino carnem levare) alimentari che, guarda caso, provocavano non di rado l’insorgere del cosiddetto ignis sacer o, più popolarmente noto, fuoco di Sant’Antonio, patologia erpetica dovuta, appunto, all’eccessiva assunzione di segale e granaglie a discapito della carne e che, a quel tempo, per lenirne i sintomi, veniva trattato con unguenti a base di cotenna di maiale, altra componente tipica dell’iconografia antoniana.
 
Non è un caso, infatti, che la figura del primo abate vi sia così fortemente legata e, sebbene non sopraggiunse che con la creazione, nell’XI secolo, dell’Ordine ospedaliero a cui ne venne concesso l’allevamento, non fu che il viatico con cui Sant’Antonio fu elevato al rango di patrono degli animali andando, così, a sostituirsi alla divinità pagana del Fauno che, in un Salento ancora intriso della religiosità greco-romana, ne assurgeva al ruolo già prima del suo arrivo. Ma, nel Salento, l’eremita di Qumans non giunse immediatamente, anzi, trascorsero quasi millecinquecento anni dalla sua morte prima che Novoli ne diventasse il centro della devozione locale.
 
Celebrato già dal cristianesimo orientale, pervenne in Italia durante il periodo della riconquista bizantina tanto da diventare, in breve, uno dei santi più popolari di tutto il nord-dest della nostra penisola fin quando, nel XVII secolo, col sorgere nel leccese di alcuni uffici commerciali veneziani, non se ne diffuse la venerazione al punto che, nel 1664, il vescovo Luigi Pappacoda non gli affidò la protezione del centro salentino.

Da allora, a Novoli, si rinnova ogni anno questa antica magia in cui il passato torna a fondersi col presente in un impeto ardente di misticismo, sacro e profano.
 



In questo articolo: