25 settembre 1988. Mezzanotte era scattata da poco, quando sulla strada degli scrittori, la statale 640 che unisce Agrigento a Caltanissetta, il giudice Antonino Saetta fu ucciso da Cosa Nostra insieme al figlio Stefano. Erano stati a Canicattì, al battesimo di un nipotino, ma all’altezza viadotto Giulfo hanno trovato la morte. Il giorno dopo sarebbe toccato al giornalista Mauro Rostagno. Due delitti annunciati, altri due nomi cancellati da Cosa Nostra.
L’ultimo abbraccio di Antonino a Stefano
L’agguato a colpi di mitra, una pioggia di proiettili non ha lasciato scampo al Presidente della Corte d’appello di Palermo e a suo figlio Stefano, che il Giudice ha cercato di proteggere con un disperato abbraccio. Non è servito a nulla quell’ultimo gesto di amore.
Saetta era al volante di Lancia Prisma grigia, quando fu affiancato da una BMW grigio metallizzata che risultò rubata ad Agrigento una decina di giorni prima da un ladruncolo che poi venne assassinato per non lasciare testimoni scomodi. Giusto il tempo di abbassare i finestrini che si è scatenato l’inferno. Dall’auto scura aprono il fuoco. I killer spararono con due mitragliette calibro 9 parabellum. La vettura del Giudice, fuori controllo, va a sbattere contro il guard-rail a bordo strada, mentre gli assassini continuarono a crivellarla di colpi. Non contenti, controlleranno se il Giudice e suo figlio, un ragazzone di 35 anni, sono ancora vivi. Vogliono essere sicuri, in caso dovesse servire il colpo di grazia.
È stato il conducente di un furgone, di passaggio quella notte, a chiedere aiuto, pensando ad un incidente. Quando i poliziotti arrivano sul posto trovano i bossoli a terra e uno sull’automobile. Sul viadotto spuntano 46 cerchietti di gesso giallo. I nomi del magistrato e del figlio vengono scanditi via radio cinque minuti dopo le due. Fu uno choc. Terranova, Costa, Chinnici, Ciaccio Montalto e anche il giudice Carlo Palermo, sfuggito per caso a una bomba erano “inquirenti”, conducevano le indagini. Saetta era giudicante, ma la mafia lo aveva comunque condannato a morte.
Il processo sulla morte del Capitano dei Carabinieri
Una condanna che il giudice aveva scritto da solo quando, durante la camera di consiglio del processo d’appello contro i killer del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, disse “non usciamo di qui se non si emette una sentenza di colpevolezza”. Con queste parole, il presidente della Corte, pronunciò anche la sua condanna. Prima del verdetto, molti dei giudici popolari erano stati “avvicinati” da Totò Riina e Francesco Madonia che erano riusciti a strappare una promessa, quella che i tre sicari di Cosa Nostra – Giuseppe Madonia (figlio di Francesco), Vincenzo Puccio e Armando Bonanno, uccel di bosco dopo il primo grado – sarebbero stati assolti. Ma tutti tentativi di “aggiustare” il processo fallirono perché Saetta era una persona per bene e fece il suo dovere. Chiamato a giudicare tre fantasmi, li condannò all’ergastolo. Prima c’era stato il processo sulla strage in cui morì Rocco Chinnici.
Il magistrato galantuomo, un giudice incorruttibile che lavorava in silenzio ma senza paure, fu ucciso proprio perché emise quella sentenza, ma anche perché c’era il pericolo, sempre più concreto, che presiedesse la Corte d’appello del primo maxi-processo. Un pericolo scongiurato con quarantasette colpi di mitraglietta calibro 9 parabellum, un’arma potente che difficilmente utilizzano i sicari di mafia, più affezionati a revolver e lupare. Un’ esecuzione senza testimoni, andata in scena al chilometro 51 della Statale 640, una strada deserta che attraversa la campagna siciliana. Un altro livello di sfida, nove anni dopo l’uccisione del giudice Cesare Terranova.