
Nella mattinata di oggi, su disposizione della Direzione Distrettuale Antimafia di Potenza, gli agenti della Squadra Mobile di Lecce – diretta dal Vicequestore Fabrizio Gargiulo – insieme ai colleghi della Sezione Investigativa del servizio Centrale di Lecce – diretto dal Commissario Capo Fabio Russo – hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Potenza, su disposizione della Direzione Distrettuale Antimafia del capoluogo Lucano, nella quale vengono riconosciuti gravi indizi di colpevolezza a carico di Pancrazio Carrino, indagato per i reati di violenza e minaccia ai danni dei magistrati leccesi Carmen Ruggiero e Maria Francesca Mariano, ritenute finalizzate a intimidire a condizionare il loro operato. Il tutto aggravato dall’uso del metodo mafioso.
Il provvedimento scaturisce da un’indagine all’esito della quale sono emerso gravi indizi di colpevolezza a carico di Carrino, ritenuto gravemente indiziato di appartenere alla Sacra Corona Unita e, nello specifico, al clan “Lamendola-Catanna”, facente parte della frangia mesagnese del sodalizio.
Le indagini hanno preso il via in seguito al grave fatto avvenuto nella notte del 2 febbraio scorso, quando, ignoti, avevano posizionato sotto l’abitazione del Giudice Mariano la testa decapitata di un capretto, in cui era stato conficcato un coltello.
Secondo la ricostruzione accusatoria, la vicenda si colloca nel contesto di una catena di gravi episodi, sei in tutto, di minacce e azioni finalizzate a condizionare l’attività dei magistrati impegnati in indagini sul crimine organizzato.
Inoltre, minacce, erano giunte al Direttore dell’emittente televisiva Telenorba, reo, di aver mandato in onda un servizio nel quale si accusava Carrino di aver fatto violentare la sua ex da una transessuale.
Fondamentali per le investigazioni sono state la comparazione del Dna e le perizie grafologiche.
Le modalità delle condotte poste in essere contro le vittime, caratterizzate da forza intimidatrice tipicamente mafiosa, sono state considerate dall’Autorità Giudiziaria fondamento dell’aggravante del metodo mafioso, contestate all’indagato che, al termine delle formalità di rito, è stato sottoposto alla misura cautelare del carcere.
Naturalmente, essendo il procedimento penale ancora nella fase delle indagini preliminari, la persona tratta in arresto, sebbene in flagranza di reato, è da ritenersi sottoposta alle indagini e quindi presunta innocente fino a sentenza definitiva di condanna.