La strage sul Rapido 904, la verità mai scoperta su quel Natale di sangue

Il 23 dicembre del 1984 una bomba esplode sul treno Rapido 904 diretto a Milano. Nella strage di Natale morirono 16 passeggeri.

23 dicembre 1984. Sul Rapido 904 si respira aria di festa. Il treno partito da Napoli e diretto a Milano era pieno di famiglie e passeggeri che tornavano a casa per Natale o andavano a trovare fidanzate, genitori e figli lontani. Quel viaggio si trasformò in una strage quando una bomba, piazzata nella nona carrozza, in seconda classe, provocò la morte di 15 persone. Se ne conterà anche un’altra: Gioacchino Taglialatela riuscì a resistere per un po’, prima che il suo cuore smettesse di battere.

C’era già stata la tragedia dell’Italicus, ma quell’esplosione aprì un’altra ferita. Diventerà l’ennesima cicatrice a ricordare che la paura, il dolore, il terrore potevano tornare. Dopo il 4 agosto 1974 la gente aveva ripreso a viaggiare sui treni, a percorrere le stesse tratte palcoscenico di attentati. E lo fecero con normalità: come se non potesse più accadere niente. Non fu così. Il Rapido 904 a Milano non arrivò mai.

La strage di Natale

Mancano due giorni a Natale. A mezzogiorno in punto di quel 23 dicembre, il treno parte puntuale da Napoli con il suo carico di madri, fratelli e padri. Gente che ha fatto la valigia per raggiungere un parente, emigrato al Nord per lavoro o per fame. La folla che si accalca davanti alle porte del convoglio fermo al binario 11 fa capire che i vagoni saranno stracolmi di persone e valige, di regali impacchettati e scatole di cartone con le cose buone del Sud, quelle fatte in casa.

Il convoglio, pieno di storie e di vite, corre lungo la tratta Napoli-Milano. Arriva alla stazione di Santa Maria Novella di Firenze alle 18.23. Qualcuno sale, colloca la bomba sulla griglia bagagli nella nona carrozza, e si allontana. Sono le 18.35 e il treno porta un lieve ritardo. Lo dice il capoconvoglio al microfono. Una ventina di minuti, non di più.

L’orologio aveva appena segnato le 19.08 quando l’ordigno, nascosto in due valigette, fu attivato con un radiocomando, un sofisticato congegno pagato, si dice, 18 milioni di lire. Pentrite, T4, nitroglicerina e tritolo – lo stesso mix usato nell’attentato fallito a Giovanni Falcone e in quello riuscito in cui morì Paolo Borsellino – non lasciano scampo. L’intento era quello di uccidere quante più persone possibile, anche perché l’esplosione è avvenuta all’interno della Grande Galleria dell’Appennino, la più lunga d’Europa.

I diciannove chilometri del tunnel di San Benedetto Val di Sambro diventarono una tomba per 15 passeggeri, un inferno per gli altri. La conta dei feriti si fermerà a 267.

Una strage annunciata. “O professore”, un informatore della polizia troppo chiacchierone, si era lasciato sfuggire una frase che diventerà un triste presagio: “Scoppierà un treno con le carrozze d’argento”, disse. Nessuno gli aveva creduto.

Fu il controllore Gian Claudio Bianconcini a chiedere aiuto, utilizzando un telefono di servizio. Era il suo ultimo viaggio in servizio. Diventerà un eroe improvvisato. È stato lui ad aiutare i passeggeri fino all’arrivo dei primi soccorsi.

«S’è voluto sporcare di sangue questo Natale» disse amaramente Il Presidente del Consiglio Bettino Craxi.

Le indagini

Chi avrebbe potuto raccontare come il rapido 904 saltò in aria non c’è più. Se è vero che a piazzare i 15 chili di esplosivo è stato un ragazzo di diciotto anni – legato alla camorra di Giuseppe Misso, un boss con la fama del rapinatore di gran classe responsabile di un colpo clamoroso al Banco di Pegni, realizzato qualche mese prima, a settembre – tre colpi di revolver sparati mentre era fermo a chiacchierare con gli amici in un bar del “suo” quartiere, la Sanità, gli hanno impedito di parlare. Il testimone più scomodo e pericoloso era stato tolto di mezzo ufficialmente per un litigio con due coetanei per una storia di donne. La circostanza è vera, ma anche i rivali del ragazzo ci lasceranno la pelle.

Le indagini avevano comunque condotto a Napoli, ma anche a Roma, a Giuseppe Calò, “il cassiere di Cosa Nostra”. conosciuto come Don Pippo e alla famigerata “Banda della Magliana“. Pezzi da novanta finirono sotto i riflettori.

Morti e suicidi sospetti (come quello del braccio destro di Misso ucciso in un agguato insieme alla moglie del boss della Sanità) hanno scandito gli anni dei processi. Bisognerà aspettare le rivelazioni di Tommaso Buscetta per avere in mano altri pezzi per ricomporre il puzzle della strage di Natale. Solo Cosa Nostra poteva decidere chi doveva morire e chi poteva vivere. Camorra e mafia insieme avevano siglato un patto di ferro per ” distrarre l’opinione pubblica e spostare l’attenzione dalla Sicilia, dove le inchieste di Falcone e Borsellino stavano segnando colpi importanti contro Cosa Nostra”.

Nel 2011 Totò Riina finisce sul banco degli imputati con l’accusa di essere il mandante della strage del 904. Fu assolto per mancanza di prove.

Resta, insieme alle ombre, il ricordo di chi ha perso la vita su quel treno che, almeno nella memoria, non si è mai fermato.



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