
Beppe Montana, commissario della squadra mobile e capo della «Catturandi», la sezione incaricata di dare la caccia ai più pericolosi latitanti di Cosa Nostra, aveva messo in conto i proiettili che lo hanno ucciso in una calda giornata d’estate, sul molo di Porticello. Non era solo una paura, ma una amara consapevolezza dichiarata a chiare lettere dopo la morte del giudice Rocco Chinnici, quando il giovane investigatore aveva detto ai cronisti: «A Palermo siamo poco più di una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà». Il conto fu chiuso il 28 luglio 1985, quando Montana fu ucciso da un commando mentre stava tornando in porto dopo una gita in barca con la fidanzata e gli amici. Ha il sale sulla pelle, i capelli umidi e il costume da bagno quando chiese al titolare del cantiere di rimessaggio un ristorantino dove mangiare del buon pesce. Non riuscì nemmeno a sentire la risposta che fu raggiunto da quattro colpi di pistola. I sicari gli sparano in faccia, lasciandolo in una pozza di sangue. L’orologio aveva da poco segnato le 21.00.
Dieci giorni dopo toccherà a Ninni Cassarà, ucciso sotto casa, davanti agli occhi della moglie Laura. Il vicecapo della Squadra mobile di Palerm davanti al corpo senza vita del Commissario disse a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, anche loro sul posto, «convinciamoci che siamo cadaveri che camminano».
Perché era stato condannato a morte era chiaro. Le risposte erano tutte chiuse all’Ucciardone, dove l’ispettore aveva spedito diversi boss. Pochi giorni prima dell’agguato, il Commissario – giunto a Palermo all’indomani dell’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo – aveva fatto irruzione con gli uomini della «Catturandi» in una villa affacciata sul mare, convinto che si stesse svolgendo un summit di mafia alla presenza di Michele Greco. Il boss di Ciaculli non c’era, era riuscito a sfuggire alla cattura, ma in manette erano finiti diversi uomini legati alla famiglia di un altro Greco, Pino, detto Scarpuzzedda.
Era bravo Montana, i colleghi avevano cominciato a chiamarlo «Serpico» quando avevano capito che non era un poliziotto qualunque: amante dei travestimenti, paziente negli appostamenti aveva capito che per scovare i pezzi grossi toccava cercarli in casa, mescolandosi tra la gente e, cosa che può sembrare incredibile, parlando come quando cercò di convincere l’amante di un boss a consegnarlo alla giustizia o, almeno, a svelare il nascondiglio del ricercato numero uno. Lei non lo tradì, Montana fu ucciso e quattro anni dopo hanno provato ad ammazzare anche lei, che custodiva tanti segreti, troppi per andare tranquillamente a passeggio.
Il caso Salvatore Marino
Le indagini partono da una soffiata: un testimone aveva segnato il modello ed i primi numeri di targa della macchina usata per fuggire dopo l’agguato. I controlli alla motorizzazione civile avevano portato ad un nome: Salvatore Marino, un calciatore di 25 anni appartenente ad una famiglia di pescatori. L’auto avvistata sul luogo del delitto risultava intestata a lui. Era il 2 agosto quando il ragazzo, sospettato di aver partecipato all’omicidio come palo, viene convocato in Questura. Nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbero state le sue ultime ore di vita.
Il picciotto viene messo sotto torchio, racconta che quella sera era con la fidanzata, ma non sa spiegare come mai nel suo umile alloggio a pochi passi dal mare la Polizia aveva trovato quasi 34 milioni di lire nascosti in un armadio. L’ interrogatorio è duro, violento non solo nei toni. Nonostante i calci e i pugni Salvatore non parla. Alle 4.00 di notte il suo cuore smette di battere.
Quando i giornali pubblicarono la fotografia del suo cadavere in obitorio scattata da Letizia Battaglia si solleva una protesta per le strade. E anche Cosa Nostra non sarebbe certo rimasta a guardare. Cassarà fu ucciso anche per vendicare Salvatore.
Talpe e pentiti
Bisognerà attendere anni per conoscere la verità o parte della verità. A raccontarla fu Francesco Marino Mannoia, arrestato da Montana pochi giorni prima dell’agguato di Porticello. Secondo il pentito l’omicidio del Commissario e del vicequestore erano stati ordinati dalla Cupola perché “davano fastidio agli uomini d’ onore”. Ed era stata la mafia ad armare il commando che poi aveva . Il tutto con l’aiuto di un poliziotto corrotto, una “talpa” nascosta nella sezione Catturandi. Insomma, era stato uno “sbirro infedele” a Anche Falcone aveva definito la Questura «covo di talpe».
In un’altra testimonianza, aggiunse che Montana e Cassarà dovevano essere eliminati perché si era sparsa la voce che avessero ordinato di uccidere i boss prima della cattura. «Non so se fosse una voce diffusa ad arte, oppure se fosse una precisa volontà di Montana e Cassarà. Posso dire con certezza che mio fratello non mi raccontò una bugia: fu un agente che faceva parte della ‘ catturandi’ a riferirla ad un uomo d’ onore» disse. Grazie a queste dichiarazioni mandanti e esecutori furono condannati al fine pena mai