Dopo essere stato per due legislature tra i banchi del Parlamento come “indipendente di sinistra” nelle file del Partito Comunista, il giudice Cesare Terranova stava per tornare al suo “vecchio” lavoro in magistratura, come consigliere della Corte di appello di Palermo. Una collocazione “di parcheggio” necessaria alla nomina a capo dell’ufficio Istruzione, un modo per ricominciare a fare il magistrato visto che era stato lontano dalla toga, l’aveva appesa al chiodo per la tessera di partito che aveva in tasca. Ma il suo lavoro gli mancava e la mafia, che aveva paura di lui, lo ha fermato prima che tornasse al suo posto. Fu ucciso la mattina del 25 settembre 1979, insieme al suo fidato collaboratore, il maresciallo Lenin Mancuso che per anni gli era stato vicino.
Sapeva cosa avrebbe trovato in Sicilia, era consapevole di dover fare i conti con un “nemico” che, anche come membro della Commissione Parlamentare d’inchiesta, aveva imparato a conoscere in tutta la sua complessità, in ogni sua diramazione.
Da magistrato “intransigente” aveva scoperto i Corleonesi, ma non è stata questa la sua unica “colpa”. Terranova fu ucciso per quello che aveva fatto, ma soprattutto per quello che avrebbe potuto ancora fare. Voleva mettere insieme gli uomini e le prove necessarie per sbattere tutti in carcere. Per questo faceva paura, per questo Luciano Liggio aveva firmato la sua “condanna a morte” per vendicarsi dell’ergastolo che il giudice gli aveva inflitto nel 1975. Così almeno si è pensato a lungo.
L’omicidio del Giudice che ha fatto paura alla mafia
25 settembre 1979, un anno terribile, quello dei delitti eccellenti di Palermo. L’orologio aveva da poco segnato le 8.30 quando il Giudice originario di Petralia Sottana, un paesino arrampicato sulle Madonie, uscì dalla sua abitazione in Via Rutelli per andare a lavoro. Ad attenderlo, come sempre, c’è il maresciallo Mancuso, il suo angelo custode. Dovrebbe fargli anche da autista, se non fosse che il magistrato preferisce mettersi alla guida della Fiat 131. Lo farà anche quel giorno.
L’auto fa solo pochi metri, fino all’altezza del civico numero 38 di via De Amicis. Pochi metri per trovarsi di fronte agli assassini che, con armi di grosso calibro, aprono il fuoco. Un agguato sotto casa, pianificato nei minimi dettagli. Terranova muore sul colpo, ucciso da una pallottola che gli trapassa il collo. L’agente di scorta che aveva provato a fargli scudo con il corpo, poche ore dopo in ospedale. Di quel momento resta la foto, drammatica, di Letizia Battaglia.
Luciane a verità
Dopo l’omicidio, si era diffusa l’idea che a volere la morte del Giudice fosse stato solo Luciano Liggio, protagonista del processo all’«anonima assassini» celebrato a Bari per legittimo sospetto e terminato con l’assoluzione di tutti gli imputati per insufficienza di prove (solo Totò Riina fu condannato per il furto di una patente). E allora perché tanto odio? Perché Leggio, il boss conosciuto come “la Primula rossa di Corleone” per l’abilità con cui sfuggì all’arresto fino al 1974, fu condannato al carcere a vita per l’omicidio di Michele Navarra. “Lucianeddu” non perdonò mai Terranova la tenacia con cui condusse le indagini e arrivò alla sua condanna.
Ecco perché si penso ad una vendetta personale risolta con il sangue. Finito alla sbarra con l’accusa di essere il mandante dell’agguato sulla base delle testimonianze di Giovanna Giaconia, la vedova del Terranova, che raccontò l’odio provato da Leggio nei confronti del marito e del capitano dei carabinieri Alfio Pettinato, che aveva raccolto le “confidenze” del boss Giuseppe Di Cristina, fu assolto per insufficienza di prove. Sentenza confermata in appello e in Cassazione.
C’è voluto tempo per scoprire la verità. Cesare Terranova era stato ucciso per metterlo a tacere, per evitare che continuasse ad indagare come aveva intenzione di fare. Dopo di lui hanno assassinato anche Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), Gaetano Costa (8 agosto 1980), Pio La Torre (30 aprile 1982), Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982) e Rocco Chinnici (29 luglio 1983).
Una strategia della tensione che non ha nulla a che fare con l’odio di Luciano Liggio.