Emilio Alessandrini, l’omicidio del giudice dalla ‘faccia mite’

29 gennaio 1979. Un commando di cinque terroristi di Prima Linea uccide il sostituto procuratore Emilio Alessandrini mentre andava al lavoro, a Palazzo di Giustizia. Aveva appena lasciato a scuola il figlio Marco.

«Sarà per quella faccia mite, da primo della classe che ci lascia copiare i compiti, sarà per il rigore che dimostra nelle inchieste, Emilio Alessandrini è il prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare; era un personaggio simbolo, rappresentava quella fascia di giudici progressisti, ma intransigenti, né falchi chiacchieroni, né colombe arrendevoli». Con queste parole il giornalista Walter Tobagi (ucciso sotto casa il 28 maggio 1980) affidava alle colonne del Corriere della Sera un ricordo del sostituto procuratore, ucciso mentre stava andando al lavoro, al Palazzo di Giustizia, da un commando di terroristi che lo crivellarono di colpi.

Dopo aver accompagnato il figlio Marco alla scuola elementare di via Colletta si era messo al volante della sua Renault 5 color arancione diretto in Tribunale. Sembrava un giorno come tanti, ma quella fredda mattina del 29 gennaio 1979 il giudice stava andando incontro alla morte. Un destino che aveva il ‘volto’ di quattro uomini armati.

Ha avuto solo il tempo di dire «che volete?», prima di sdraiarsi, privo di vita, sui sedili dell’auto ferma al semaforo rosso che aveva ‘dettato’ il tempo dell’agguato: 40 secondi per portare a termine il piano, studiato nei minimi particolari. Prima di fuggire via, i killer avevano lanciato un fumogeno, per creare il caos. Uno di loro, era persino corso in ufficio, come se fosse un tranquillo lavoratore, ignaro che era stato ammazzato un magistrato senza scorta. “Non sarebbe servita a niente” come aveva confidato.

L’orologio aveva da poco segnato le 9.00 quando la notizia dell’agguato al giovane magistrato ha cominciato fare il giro di Milano. Chi poteva volere la morte di un uomo di appena 36 anni, conosciuto anche in aula per la sua umanità. Perfino i condannati in processi da lui istruiti tornavano a salutarlo per ringraziarlo per come li aveva trattati. Nonostante la sua giovane età, tra le mani del sostituto procuratore erano passati tutti i faldoni più scottanti dell’epoca, da Piazza Fontana al caso dello scandalo finanziario del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.

24 ore dopo arriva la firma di Prima Linea. L’attentato fu preso rivendicato con una telefonata. A premere il grilletto erano stati Sergio Segio e Marco Donat Cattin, che gli aveva dato il colpo di grazia. Michele Viscardi e Umberto Mazzola gli coprivano le spalle. Bruno Russo Palombi, invece, aveva il compito di guidare la Fiat 128 bianca, usata per la fuga. Alessandrini era stato ucciso, come scriveva Tobagi, «per quel che aveva fatto, ma ancor più per quanto si apprestava a fare: un archivio sul terrorismo».

Al funerale, in Duomo, c’è tutta la città. Resta impressa l’immagine del presidente Sandro Pertini che accarezzava il capo del piccolo Marco che a 8 anni aveva dovuto rinunciare al papà. I colpi si erano sentiti fino alla sua scuola, ma nessuno aveva capito che erano ‘toccati’ al giudice fuoriclasse.

Pochi mesi prima, nel covo di via Negroli, abitato da Corrado Alunni, era stata trovata una sua foto. Un avvertimento che resterà inascoltato. Alessandrini era finito nel mirino. «Abbiamo fatto varie ricognizioni e indagini – confessò Donat Cattin, che si era dissociato dalla lotta armata – Lui era quello che nella giornata aveva più punti deboli». Il suo punto debole è stato un semaforo. Non potevano colpirlo a casa, con il figlio stretto per mano né davanti alla scuola e nemmeno vicino al Palazzo di Giustizia, ma all’incrocio, nel mezzo del traffico tipico di Milano, sì.

Il terrorista aggiunse che con l’omicidio del giudice che amava essere normale, Prima linea aveva compiuto un grave errore, che avrebbe portato alla fine dell’organizzazione. Ma lo stesso destino sarebbe toccato a Guido Galli, assassinato tredici mesi più tardi.



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