La strage sul “sentiero delle Signore”. Il pastore Alì e il delitto del Morrone

Tre ragazze padovane vogliono raggiungere la cima del Monte Morrone, ma durante l’escursione incontrano il loro assassino. Diana e Tamara persero la vita, Silvia si salvò fingendosi morta

Quando si parla del delitto del Morrone, non si può non ricordare il massacro del Circeo, perché quel ‘maledetto’ 20 agosto 1997 sul monte abruzzese che ha dato il nome alla tragedia morirono due escursioniste padovane, Diana Olivetti e Tamara Gobbo, mentre Silvia, sorella di Diana, riuscì a salvarsi fingendosi morta, come aveva fatto Donatella Colasanti, ritrovata con il volto insanguinato nel bagagliaio di una Fiat 127 bianca.

Ad ucciderle era stato Aliyebi Gostivar Hasani, Alì come lo chiamavano tutti, un pastore macedone di 23 anni che, con fare cortese, le aveva accompagnate non lontano dal bosco di Mandra Castrata.

L’escursione sul monte e l’incontro col pastore

Le tre ragazze di Albignasego, Silvia, Diana e Tamara, avevano decidono di trascorrere le vacanze in Abruzzo, per scoprire il Parco Nazionale della Majella. Appassionate di escursionismo, avevano programmato una gita sul monte Morrone. Quella mattina, di buon’ora, avevano intrapreso il “sentiero delle Signore“, uno sterrato che conduce alla vetta della montagna, quando dopo due ore di cammino, incrociano lungo la strada un pastore. Lo salutano, come normalmente si fa quando si incrocia qualcuno su un sentiero e, pensando di aver smarrito la strada, si fermano per chiedere indicazioni per una scorciatoia.

Aspetto trasandato, ma garbato, l’uomo si offre di accompagnarle su una strada alternativa per ‘evitare i cani randagi’. Non parla bene l’italiano, ma conosce bene la montagna e le ragazze decidono di seguirlo, senza pensarci, fino al bosco di Mandra Castrata. Qui, indica alle ragazze la direzione da seguire. E loro lo ringraziano, ma ad un certo punto, il “misterioso” accompagnatore estrae una pistola dalla tasca dei pantaloni e le minaccia.

Silvia, che ha poco più di 21 anni, implora, chiede a quello sconosciuto di lasciarle andare, gli offre dei soldi, ma lui fa capire che se ne frega del denaro. Non è questo che vuole Hasani. “Ho continuato a pregarlo, manon ha avuto pietà”, dirà. Infastidito da tanta insistenza, il pastore preme il grilletto. La ragazza si accascia al suolo, ferita, ma capisce che, per salvarsi, deve fingersi morta.

Tamara grida, lui risponde che ha ancora tre proiettili. Li userà tutti. Per farla tacere, il pastore apre di nuovo il fuoco. La sorte più orribile toccherà a Diana. Alì la obbliga ad appartarsi con lui tra gli alberi, tenta di violentarla, poi decide di ucciderla. Una scena, in quel gran silenzio a quasi duemila metri, che lascia senza parole.

Silvia riesce a scappare e dopo cinque ore di cammino raggiunge Marane e chiede aiuto. “Hanno ucciso mia sorella e la mia amica!”, racconta disperata, prima di perdere i sensi. Un massacro che ha macchiato di sangue la “montagna sacra”.

La cattura del pastore e la confessione

L’assassino non ha nemmeno provato a scappare. Gli uomini in divisa lo trovano che dorme serenamente, non lontano dalla scena del crimine, con indosso i vestiti descritti minuziosamente da Silvia: la giacca a vento strappata, il berretto, i pantaloni a mezza gamba. Alì non oppone resistenza né nega di aver ucciso le due escursioniste. A notte fonda per il pastore si spalancano le porte del carcere di Sulmona, il paese dei confetti. Ad inchiodare Hasani c’è la testimonianza di Silvia che riconosce il volto dell’assassino in foto che parla per inchiodare alla memoria ogni particolare del mostro, un clandestino che vive sulle montagne abruzzesi. La Maiella pullula di questi individui.

Tre pistole aggravano la posizione dell’unico sospettato. Non un ritrovamento casuale. Ad indirizzare gli uomini in divisa è il datore di lavoro del pastore, che ammette di aver dato le semi automatiche al giovane macedone e di averle poi nascoste temendo di essere coinvolto nella vicenda. Ci sarebbe anche una quarta pistola, forse l’arma del delitto, che però non sarà ritrovata. La famosa “pistola fantasma”, così come passerà in rassegna alle cronache.

C’è poi una confessione, poi rimangiata.

“Non odio nessuno, non sarei capace di odiare, però sento dentro tanta rabbia e tanta tristezza per una realtà troppo bella che è andata in frantumi, come un vaso di cristallo, senza una spiegazione, non dico giusta ma almeno sufficiente da lenire in parte il dolore. Sopra i monti vedo una croce, ma sullo sfondo vedo il tutto sormontato dai raggi del sole: nulla resterà inutile e senza senso”, scrisse Silvia in una lettera pubblicata da Famiglia Cristiana.



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