Il disastro nucleare di Chernobyl, cosa accadde quella notte

Prima dell’alba del 26 aprile 1986 il reattore numero quattro della centrale di Čhernobyl scoppiò. Fu il peggior incidente nucleare che il mondo avesse mai conosciuto.

26 aprile 1986. L’orologio aveva da poco segnato l’1:23 di notte, quando nella centrale nucleare di Chernobyl scoppiò un incendio, un inferno di fiamme e materiale radioattivo, cinquecento volte più letale delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. Durante un rischioso test di sicurezza – si voleva verificare se, in assenza di alimentazione esterna, la turbina accoppiata all’alternatore potesse continuare a produrre energia elettrica sfruttando l’inerzia del gruppo turbo-alternatore anche quando il circuito di raffreddamento non producesse più vapore, per alimentare le pompe di circolazione – qualcosa andò storto. E il reattore numero 4 esplose, provocando un disastro, il più grave incidente della storia dell’energia nucleare e l’unico, insieme a quello di Fukushima del 2011, a essere classificato al settimo livello, il massimo, della scala di catastroficità INES.

Catastrofe era la parola giusta. Una serie di errori fatali, una catena di mancanze e sbagli umani, ‘difetti’ tecnici, problemi strutturali e gestionali dell’impianto provocarono la morte di molte persone e conseguenze inimmaginabili per tante altre. Non solo per gli abitanti di Pripjat, la città dei fiori costruita negli anni settanta per il personale della centrale, che hanno dovuto abbandonare le loro case, ma per il mondo intero che ha “pagato” e continua a pagare le conseguenze del disastro.

Una tragedia di cui nessuno seppe nulla, per giorni. E anche quando la notizia cominciò a superare i confini locali, non si capì tutto. Mancava sempre qualche pezzo, qualche tassello di una verità che non è ancora stata scritta. In Italia il primo titolo che parlò del disastro di Chernobyl era del 29 aprile, ma la notizia era più un puzzle da completare che una cronaca di quanto accaduto quella notte. Sembra impossibile, oggi, nell’era dei social network che permettono di seguire una guerra in diretta, con aggiornamenti continui su uno smartphone tenuto in tasca, ma andò così.

Il sarcofago

Bisognava fare in fretta: la nube azzurra delle radiazioni e le polveri color cenere della grafite radioattiva si erano posate ovunque. L’unico rimedio, oltre quello di evacuare intere città con gli abitanti caricati su autobus e camion e evacuati in massa, era quello escogitato dagli esperti dell’epoca: un sarcofago. Il primo intervento si limitò alle tonnellate di sabbia gettate con gli elicotteri, da un’altezza di cento metri, che servirono solo a surriscaldare il nocciolo, facendolo affondare nel terreno. Si provò con l’acqua, che doveva spegnere l’incendio e invece provocò molti cortocircuiti, alimentando per altri quindici giorni fiamme ed esplosioni. E allora ecco il sarcofago: una corazza di cemento armato costruita dai “liquidatori” per contenere il nocciolo fuso del reattore.

Sono stati loro, i Bio-Robots come furono chiamati perché lavorarono in silenzio nei punti dove i Robots andavano in tilt, i veri eroi di Chernobyl. Non erano inconsapevoli, non del tutto. Molti di loro avevano capito che avrebbero pagato con la vita o con la salute il tentativo di contenere l’emergenza.

Il mistero delle vittime

Non c’è mai stato un conto delle vittime, quello “ufficiale” parla di circa trenta morti, soprattutto tra i vigili del fuoco del turno notturno che lavorarono per ore nel vano tentativo di spegnere l’incendio del reattore. Si spegneranno settimane o mesi dopo, in un piano a loro riservato nella clinica numero 6 di Mosca. Capire quali sono state le conseguenze negli anni è un compito difficile, se non impossibile. Ancora oggi non si conosce l’esatto costo umano della tragedia, su cui da tempo è in ballo una guerra di numeri. E allora non è sbagliato dire che fu una strage incalcolabile.



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