“L’ordine è già stato eseguito”, la strage delle Fosse Ardeatine

C’erano anche quatto salentini tra le vittime della strage delle Fosse ardeatine, il massacro organizzato per punire in modo esemplare l’attentato partigiano di Via Rasella

Ci sono orrori che non possono essere dimenticati, che devono essere consegnati alla memoria, anche se fanno male, perché come diceva Primo Levi «se comprendere è impossibile, conoscere è necessario», affinché quanto accaduto non si ripeta, mai più. Uno di questi è la strage delle Fosse Ardeatine, in cui morirono 335 persone con nomi e storie diverse. Era l’alba del 24 marzo 1944, nel cuore della seconda guerra mondiale, quando per ‘punire’ l’attentato di via Rasella, il capitano delle SS Erik Priebke, impeccabile con la divisa tirata a lucido, chiamò i condannati a morte, segnando con una crocetta a matita gli innocenti scesi nelle vecchie cave di arenaria, abbandonate da tempo, con le mani legate dietro la schiena. Quel luogo, a un passo dalle catacombe cristiane, diventò una fossa comune, dove nascondere i cadaveri dei prigionieri, uccisi con un colpo alla nuca mentre erano inginocchiati. Era questo l’ordine: i militari incaricati di far fuoco dovevano massacrare gli ostaggi, uno alla volta, sparandogli a distanza ravvicinata, in modo da risparmiare tempo e munizioni.

La strage delle Fosse Ardeatine

Quando la notizia dell’attacco partigiano in via Rasella venne comunicata ad Adolf Hitler, il ordinò di radere al suolo un intero quartiere di Roma e pretese una punizione esemplare: cinquanta italiani dovevano essere fucilati per ognuno dei soldati tedeschi morti nell’attentato, ma una proporzione di uno a cinquanta sembrò eccessiva anche ai militari nazisti. Albert Kesselring, il comandante dell’esercito tedesco in Italia, si oppose insieme a molti degli altri ufficiali e riuscì a persuadere Hitler ad abbassare le sue richieste. Venne deciso che dieci italiani sarebbero stati uccisi per ognuno dei tedeschi morti nell’attentato.

Da quel momento cominciò la caccia agli ostaggi da fucilare. Dovevano essere più di 300, teoricamente persone «Toteskandidaten» («degne di morte»), ma i numeri non tornavano. Alla fine, nella foga di rintracciare tutti i prigionieri da “giustiziare” nella lista finirono in più del necessario. Cinque per l’esattezza, ma liberarli, a quel punto, avrebbe compromesso l’operazione che doveva rimanere segreta.

È stato scritto anche che fossero stati messi dei manifesti, per strada e sui giornali, nei quali i tedeschi comunicavano che se i partigiani responsabili dell’attentato non si fossero presentati spontaneamente loro avrebbero ucciso dieci italiani per ogni tedesco morto in via Rasella. Il messaggio era chiaro: i par¬tigiani codardi, con il loro silenzio, mandarono a morte 335 italiani incolpevoli. Non fu così, tutto fu organizzato in gran segreto e reso noto il giorno dopo, con un comunicato stampa: «Il comando tedesco ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato, 10 criminali comunisti badogliani verranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito». Era tutto finito.

Portati fuori Roma, vennero condannati a morte, uccisi con un colpo di pistola alla nuca mentre veniva distribuito del cognac per tenere alto il morale. Il capitano Erich Priebke ebbe il compito di spuntare i nomi dei condannati dall’elenco man mano che entravano nelle cave. Per questo fu soprannominato il «boia delle Fosse Ardeatine». Una volta concluso il giro, le grotte della cava vennero fatte esplodere.

Le vittime salentine

Nel lungo elenco delle vittime delle Fosse Ardeatine, quattro erano originarie di Lecce: Ugo Baglivo, il docente di diritto penale all’Università di Roma originario di Alessano. L’avvocato, convinto antifascista, era stato arrestato il 3 marzo e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il 24 marzo, il suo nome era comparso nell’elenco dei reclusi da fucilare. Informato del suo ‘destino’, rifiutò una possibilità di fuga per restare accanto ai compagni.

Federico Carola, nato a Lecce era il Capitano della Regia Aeronautica – Fronte Militare Clandestino.

Fu arrestato in piazza Re di Roma e rinchiuso nel penitenziario di via Tasso insieme al fratello Mario, nato a Gaeta. A tradirli fu la persona a cui si erano rivolti per recuperare benzina e pneumatici destinati ai partigiani.

Antonio Pisino, originario di Maglie, era un ufficiale di marina. Fu arrestato dopo la denuncia di una spia e condannato a 3 anni di reclusione insieme ad Aladino Govoni, Nicola Stame, Ezio Lombardi ed Unico Guidoni anche loro vittime delle Fosse.

Ferruccio Caputo, di Melissano era studente. Fu arrestato immediatamente dopo l’attacco di via Rasella. Si trovava nascosto presso la famiglia Troisi.



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