«Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie… ma tira un vento forte». A citare alcuni versi della poesia di Giuseppe Ungaretti, Soldati, è Enzo Biagi. Ricoverato in una clinica milanese per un edema polmonare acuto, il cronista, come amava definirsi, pronunciò queste parole ad un’infermiera, pochi giorni prima di morire, che gli chiedeva come stava. Era il 6 novembre 2007, quando l’Italia si ritrovò a piangere per la scomparsa di una penna di qualità che ha lasciato il segno in un’Italia che stava cambiando. Il mondo dell’informazione aveva perso uno dei suoi personaggi più autorevoli, “una persona onesta”, che ha accompagnato, raccontandola, la storia del Paese per oltre mezzo secolo.
«Ho sempre sognato di fare il giornalista, lo scrissi anche in un tema alle medie: lo immaginavo come un “vendicatore” capace di riparare torti e ingiustizie. Ero convinto che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo». Il mondo lo ha raccontato, in tutte le sue sfaccettature durante la sua carriera, lunga una vita. Era stato la voce di un secolo.
Nel 1942 fu chiamato alle armi ma non partì mai per il fronte, a causa di quei problemi cardiaci che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita, segnando anche la sua famiglia. L’anno dopo sposò Lucia Ghetti, l’amore della sua vita. Poco dopo si unì alla Resistenza, combattendo nelle brigate Giustizia e Libertà, legate al Partito d’Azione. Anche in quel caso con la penna. Il suo comandante, che lo trovava troppo gracile, prima gli diede compiti di staffetta, poi gli affidò la stesura di un giornale partigiano, Patrioti. Uscirono appena quattro numeri, fino a quando la stampa fu interrotta dai tedeschi che distrussero la tipografia. Fu lui ad annunciare via radio la liberazione.
Biagi considerò sempre i mesi che passò da partigiano come i più importanti della sua vita: in memoria di ciò, volle che la sua salma fosse accompagnata al cimitero sulle note di Bella ciao.
È davvero difficile riassumere la carriera di Enzo Biagi, come inviato speciale, come direttore, come conduttore, come professionista capace di catturare la notizia, come quando fu ritrovato il corpo senza vita di Wilma Montesi. Il giornalista intuendo la grande risonanza che avrebbe avuto il caso decise, contro ogni disposizione, di dedicare alla giovane ragazza romana trovata sulla spiaggia di Ostia la copertina e di pubblicare un’inedita ricostruzione dei fatti. Fu un successo clamoroso.
Schiena sempre dritta e stile unico, ricco di proverbi, citazioni, di luoghi comuni elevati a dignità letteraria, capace di toccare il cuore dei suoi lettori. I suoi affetti profondi sono stati la famiglia e la professione. E la scrittura che non abbandonò mai, nemmeno quando fu colpito da due gravi lutti: la morte della moglie Lucia il 24 febbraio 2002 e della figlia Anna il 28 maggio 2003, cui era legatissimo, scomparsa improvvisamente per un arresto cardiaco. Questa morte lo segnò per il resto della sua vita.
Quattro lauree honoris causa, più di ottanta libri pubblicati, cento programmi, con più di mille puntate, con i quali ha raccontato pagine della storia del Paese e un numero indescrivibile di articoli pubblicati sui maggiori quotidiani: dal Corriere della Sera a Repubblica, dalla Stampa al Giornale, dal Resto del Carlino all’Espresso, da Panorama ad Oggi. Restano alcune sue frasi celebri, come quando disse «Consideriamo il quotidiano un servizio pubblico, come i trasporti e l’acquedotto. Non manderemo nelle vostre case acqua inquinata» («Resto del Carlino», 1970). O la risposta al segretario del presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, che voleva il suo telegramma come apertura del Tg che lui dirigeva da poco: «Facciamo i giornalisti, non i postini» (Radiotelevisione italiana, 1961).