Jonestown, il più grande suicidio di massa della storia. Sangue versato nel nome di una fede

Il 18 novembre 1978, 909 seguaci della congregazione religiosa del «Tempio del Popolo», tra cui donne, bambini e anziani si tolsero la vita. Sarà ricordato come il più grande suicidio di massa della storia

Il 18 novembre 1978 resterà impresso come il giorno del più grande suicidio di massa della storia. Tanto sangue è stato versato in nome della fede, ma quanto accaduto a Jonestown fu una tragedia inspiegabile, di cui si sente ancora il peso. In un pezzo di terra, nella giungla della Guyana, morirono quasi mille persone, seguaci della congregazione religiosa del «Tempio del Popolo». Uomini, donne, anziani e bambini si tolsero la vita bevendo un cocktail al cianuro, come aveva ordinato il loro capo, il reverendo Jim Jones.

James Warren Jones, detto Jim, era un uomo stimato. A 16 anni predicava il “vangelo dell’uguaglianza”, una sorta di interpretazione comunista della figura di Gesù Cristo, nei sobborghi neri di Richmond, dove si era trasferito insieme alla madre dopo la separazione dei genitori. A 23 anni aveva fondato la Wings of Deliverance (“Ali di liberazione”), una Chiesa di emarginati, senza fissa dimora, donne sole e neri invitati bussando casa per casa. All’inizio degli anni ’60 più di 2mila persone partecipavano alle sue funzioni. La moglie del presidente Carter, Rosalynn, colpita dalla sua bontà, gli scriveva spesso. Il vicepresidente Mondale, in una lettera al «caro Jim», si dichiarava «riconoscente per il lavoro svolto».

Apprezzamenti adulatori, parole lusinghiere, successo lo resero un volto noto, ma verso la metà degli anni ’70, Jones cominciò a dare segni di squilibrio: si credeva la reincarnazione di Cristo e Lenin insieme, diceva di essere in grado di compiere miracoli, di resuscitare i morti, di non dormire mai. Sembrava conoscere in anticipo i nomi delle persone che incontrava per la prima volta e guariva ciechi e zoppi durante le liturgie. Fu nel periodo trascorso a San Francisco che le prime voci di molestie sessuali nei confronti di alcuni adepti cominciarono a diffondersi.

La città di Jonestown

Messo sotto accusa da più parti e sentendosi braccato, il reverendo prese segretamente accordi con il governo della Guyana per ottenere alcuni terreni nella giungla, dove fondò Jonestown. Nei progetti di Jones quella comunità sarebbe dovuta diventare un paradiso terrestre, un posto bucolico e solitario. Era il 1977. Quell’estate quasi mille persone, i «People Temples», abbandonarono tutto e si trasferirono con il reverendo in quel pezzo di terra a qualche chilometro dal piccolo villaggio di Port Kaituma. Alcuni erano scapati via in gran segreto, come la famiglia di un macellaio. Quando l’uomo tornò a casa non trovò più la moglie e i sette figli. Il suo appartamento era stato svuotato, i mobili erano stati venduti al negozio di oggetti di seconda mano della chiesa.

Ai nuovi arrivati veniva ritirato il passaporto e i documenti “per ragioni di sicurezza”. Chi manifestava apertamente il desiderio di tornare a casa, o criticava le condizioni di vita di Jonestown, veniva assegnato a “squadre di rieducazione”. Insomma, qualcosa di molto lontano dal paradiso promesso.

Passa il tempo, ma alcuni familiari non si arrendono: sono convinti che i parenti siano trattenuti in quel luogo sperduto in mezzo alla giungla contro la loro volontà. Iniziano anche a trapelare i racconti di chi è riuscito a scappare. Alla fine, dopo una serie di pressioni e denunce, il Congresso degli Stati Uniti aprì un’indagine.

L’omicidio di Leo Ryan

Nel 1978, il deputato californiano Leo Ryan, conosciuto per la sua caparbietà ad occuparsi in prima persona dei problemi (si dice che si sia fatto rinchiudere per dieci giorni, usando uno pseudonimo, nella prigione di Folsom per verificare le condizioni dei carcerati), si recò in visita a Jonestown insieme a un gruppo di giornalisti per vedere con i suoi occhi cosa si nascondeva dentro quella comunità apparentemente felice. Il viaggio si concluse in un bagno di sangue: il politico venne ucciso da un seguace della setta su ordine di Jones, insieme ad altre quattro persone, durante una sparatoria mentre cercavano di ripartire dall’aeroporto con alcuni adepti che erano stati costretti a partire per la Guyana.

Il “suicidio rivoluzionario”

Il predicatore parlava spesso della necessità che i fedeli iniziassero a “programmare” la loro morte. Un evento così importante, diceva, non poteva essere lasciato al caso. Un pensiero inculcato anche nei suoi adepti. L’unico medico della comunità – un 29enne che non aveva mai finito gli studi di medicina e che soffriva di una pesante forma di depressione – nel suo giorno libero, progettava il modo migliore per uccidere gli uomini che nel resto della settimana cercava di curare, crescendo colture di germi nocivi.

Quanto accaduto il 18 novembre era stato in qualche modo “preparato”. Dopo l’omicidio del deputato, Jones sapeva di avere le ore contate. Era arrivato il momento giusto. Salì sull’altare e ordinò ai fedeli di compiere l’ultimo « sacrificio» per «difendersi dall’imminente invasione delle forze del Male».

Centinaia di persone bevvero un cocktail con succo di frutta, cianuro di potassio, Valium, idrato di cloralio (un anestetico) e cloruro di potassio, facendo la fila davanti a un enorme bidone. Jones, che aveva ordinato di iniziare dai bambini, invitò tutti a “morire con un po’ di dignità”.

Il veleno faceva effetto in pochi minuti. Il reverendo aspettò che tutti esalassero il loro ultimo respiro e si sparò un colpo di pistola alla tempia. Attorno a lui rimasero i cadaveri di quasi mille persone, il più grande suicidio di massa nella storia.



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