
Le lancette dell’orologio avevano appena segnato le 20.15 quando Marco Biagi morì tra le braccia degli operatori del 118. Pochi minuti prima, un commando formato da tre brigatisti – due a bordo di un motorino e un terzo (la staffetta) a piedi, pronto ad entrare in azione se qualcosa fosse andato storto – aprì il fuoco contro l’esperto di diritto del lavoro e consulente del governo.
Sei colpi esplosi, si scoprì dopo, con la stessa arma usata per l’omicidio di Massimo D’Antona, ucciso a pochi passi dalla sua abitazione di Roma. Anche il professore stava tornando a casa quella sera di marzo. In sella alla sua bici aveva percorso il tratto che separava il suo l’appartamento dalla stazione, che dove c’era il treno che lo riportava ogni sera a Bologna. Appena sceso, il docente alla Facoltà di Economia all’università di Modena aveva chiamato la moglie per avvisarla del suo rientro, inconsapevole che stesse andando incontro alla morte. A seguire i suoi movimenti c’erano due persone che hanno informato i terroristi appostati in via Valdonica, a pochi passi da piazza Maggiore, nel cuore della città.
«Ho sentito che gridava aiuto e che chiedeva pietà» ha raccontato una testimone, una ragazza che si trovava in un caffè e aveva visto tutto. «In che senso pietà?» chiese il giudice durante processo contro gli autori dell’attentato: «“Per favore aiutatemi”, sono state le sue ultime parole».
Biagi lasciava la moglie Marina e i due figli Francesco e Lorenzo che avrebbero scoperto la sua morte affacciandosi alla finestra, e vedendo il corpo riverso sull’asfalto.
Le polemiche sulla scorta
Biagi non aveva la protezione. Qualche mese prima, gli era stata revocata la scorta, nonostante le minacce ricevute come scritto, nero su bianco, in cinque lettere su cui il giuslavorista aveva impresso la sua paura. Una paura che si materializzò il 19 marzo. I brigatisti approfittarono del fatto che fosse solo, come raccontato da una terrorista pentita al processo «Se Marco Biagi avesse avuto la scorta non saremmo riusciti ad ucciderlo. Per noi – disse – due persone armate costituivano già un problema. Non eravamo abituati ai veri conflitti a fuoco. Avremmo dovuto fare più attenzione, osservare possibili cambiamenti nella situazione del professore. Dovevamo controllare che non fosse solo».
Alla stazione di Bologna il docente – responsabile di una legge studiata per portare maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, anche attraverso la nascita di contratti a progetto – era da solo. E sempre solo era quando fu ucciso.
Pistola e proiettile furono firma sull’omicidio prima ancora della rivendicazione recapitata via mail, la stessa notte. Um volantino di 26 pagine per spiegare l’assassinio, perché il consulente del ministro Roberto Maroni era stato «giustiziato».
Il 3 marzo 2003, sul treno Roma-Firenze, tre agenti chiesero i documenti a due passeggeri. Erano falsi. L’uomo era Mario Galesi, era stato lui a sparare a Biagi. Morì nello scontro con gli uomini in divisa, come Emanuele Petri il sovraintendente che, insospettito, aveva voluto vederci chiaro. La donna, Nadia Desdemona Lioce, anche lei coinvolta nell’omicidio del professore, fu arrestata. Ai complici si arrivò passo dopo passo. Hanno scontato o stanno ancora scontando il loro contro con la giustizia.
Il caso Landi
La sera del 4 aprile 2002, i carabinieri trovarono il corpo di Michele Landi, impiccato con una corda intorno al collo, nella sua casa di Guidonia Montecelio, vicino a Roma. Quando gli agenti, allertati dalla fidanzata dell’uomo, arrivarono sul posto, notarono subito la strana posizione del cadavere, con le gambe piegate e le ginocchia appoggiate sul divano.
Probabilmente il ritrovamento non avrebbe suscitato tanto scalpore se non fosse che Landi, proprio in quei giorni, stava cercando di trovare, (senza alcun incarico ufficiale), mittente della rivendicazione delle Nuove Brigate Rosse dopo l’omicidio di Marco Biagi. E anche in passato l’esperto informatico era stato nominato consulente dal collegio difensivo di Alessandro Geri, il presunto telefonista (in seguito scagionato) delle Nuove Br nell’omicidio di Massimo D’Antona.
Nei mesi successivi molte voci si alternarono sulla possibilità di un collegamento tra questa morte e le indagini che Landi stava svolgendo, ma nessuna ipotesi di questo tipo ha mai trovato conferma ufficiale.