Le sirene delle Forze dell’ordine – tante, troppe per indicare una semplice operazione – hanno fatto intuire che qualcosa di grosso stava accadendo per le strade di Palermo. Era così. A finire in manette è stato Matteo Messina Denaro, probabilmente il capo di Cosa Nostra dopo la morte di Totò Riina. Di certo, il boss finito nella lista dei latitanti più pericolosi e ricercati al mondo, è l’ultimo custode dei segreti più inconfessabili legati agli anni più bui della storia. Nelle sue mani sarebbero finiti i documenti scomparsi ‘misteriosamente’ dal covo della villa del Capo dei Capi in via Bernini.
Da quando aveva fatto perdere le sue tracce, nel 1993, erano state tante le ‘leggende’ nate intorno a “u siccu”, come era chiamato, anche se di soprannomi Matteo Messina Denaro ne aveva collezionati tanti nella sua lunga carriera criminale. Alcuni pentiti avevano raccontato che si era sottoposto a un intervento di chirurgia plastica che aveva cambiato i lineamenti del suo volto, impresso in quello scatto storico, l’ultimo nelle mani degli uomini in divisa e ‘invecchiato’ grazie alla tecnologia. Qualcuno, intercettato, aveva lasciato intendere che se fosse morto, altri gravemente malato. Altri ancora, avevano confidato che aveva persino rimodellato i polpastrelli, per cancellare le impronte digitali. Il suo passato, quello no, nessuno ha potuto dimenticarlo.
Tante supposizioni che hanno scandito gli anni della sua latitanza e, invece, la Primula Rossa era a ‘casa’. Montone griffato, cappellino di lana in testa e al polso un Franck Muller da 35mila euro, il boss è stato catturato mentre era in una delle cliniche private più note di Palermo.
Chi è la primula rossa di Cosa nostra?
Macchine costose, ristoranti alla moda, abiti griffati e collezionista di raffinati oggetti d’arte. Matteo Messina Denaro, implacabile playboy con i Ray Ban, le camicie griffate e il Rolex al polso, aveva un debole per le belle donne e per il lusso. Il suo era un ritratto lontano dall’immagine del contadino semi-analfabeta di Castelvetrano che si è fatto strada fino ad accumulare una fortuna che si sospetta immensa. Un impero miliardario che gli inquirenti hanno cercato di smontare pezzo per pezzo, lasciandolo sempre più solo.
Impossibile ‘contare’ gli omicidi che portano la sua firma. Ammazzare per lui era “semplice”. Una volta fece fuori un albergatore di Triscina, Nicola Consales, che aveva osato lamentarsi per una impiegata viennese che gli era stata imposta e non faceva nulla e per «quei mafiosetti sempre tra i piedi». La viennese era la fidanzata del momento del boss e lui non poteva ignorare l’affronto. Ha anche strangolato con le sue mani Antonella Bonomo, incinta di tre mesi e compagna del boss Vincenzo Milazzo, capo della cosca di Alcamo “giustiziato” dai corleonesi. Era ritenuta una testimone scomoda degli affari di Cosa nostra, conosceva i segreti del compagno. Lui stesso, del resto, si vantava di avere “ucciso tante persone da riempire un camposanto“.
Irreperibile dal 1993, una latitanza nient’affatto sacrificata stando ai resoconti dei pentiti, è riuscito a “farla franca” per anni cambiando molti nomi: Ignazieddu, Diabolik,come il suo fumetto preferito, “U bene”, per via della devozione o «Alessio». Così si firmava nei pizzini pieni di rispetto ritrovati nel covo di Montagna dei Cavalli dopo dell’arresto di Bernardo Provenzano. Una scoperta, si dice, che lo fece andare su tutte le furie.
Quando diventa un fantasma ha da poco superato i trent’anni e in una lettera alla fidanzata dell’epoca, Angela, scrive: “Sentirai parlare di me, mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità”. Falsità, ma il suo nome è stato accostato a quasi tutti i fatti di sangue più drammatici della storia italiana: dai delitti eccellenti ai regolamenti di conti, dall’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido per punire il papà, Santino, che aveva deciso di collaborare con la giustizia agli attentati riusciti e mancati, come quello a Maurizio Costanzo, scampato miracolosamente all’esplosione di via Fauro che avrebbe dovuto ucciderlo insieme alla moglie e all’autista. Nel 1992, Riina l’aveva spedito a Roma per organizzare l’uccisione di Giovanni Falcone, prima di richiamarlo in Sicilia perché aveva optato per «cose più grosse quaggiù», cioè la bomba di Capaci.
I segreti “du fimminaro”
Sanguinario, ma con il fiuto per gli affari, ha lasciato sempre centinaia di tracce, ma spariva sempre al momento giusto. Sembrava introvabile, come suo padre Francesco, intoccabile a tal punto da morire di crepacuore, nel 1998 come un uomo libero. Il suo corpo è stato fatto ritrovare in campagna, vestito in abito scuro, pronto per la cerimonia funebre.
Non ha mai racconteto nulla del capitolo dei segreti da svelare, quelli del passato e quelli del presente. Se ne è andato, la notte del 24 settembre, nel reparto detenuti dell’ospedale de L’Aquila, senza aver mai mostrato un segno di pentimento. «Io non ho mai infamato nessuno e morirò senza infamare nessuno, questo è Messina Denaro».