Sulla carta di identità usata nella clinica privata di Palermo c’era scritto Andrea Bonafede. Nato a Campobello di Mazara, in provincia di Trapani, il 23 ottobre 1963, geometra di professione, statura 1,78, occhi castani, segni particolari: nessuno. A parte che quell’uomo era Matteo Messina Denaro, “u Siccu”. Uno dei latitanti più ricercati al mondo, il boss sanguinario che con gli omicidi commessi nella sua lunga carriera criminale “può riempire un camposanto”, la primula rossa che, per trent’anni, era diventato un fantasma è stato catturato mentre si preparava per una seduta di chemioterapia, si mormora, per una metastasi al fegato scoperta durante i controlli. La malattia lo ha indebolito, le “confidenze” della dei familiari del capomafia lo hanno incastrato. Come dei principianti qualunque si sono lasciati sfuggire qualche battuta sulle operazioni e sul ricovero del padrino.
L’indagine sui malati di tumore, la scoperta che Andrea Bonafede (quello vero) il giorno dell’intervento chirurgico, scoperto grazie alle intercettazioni, era da tutt’altra parte, l’osservazione e l’arresto che consegna alla storia della lotta alla mafia un capitolo di un libro in cui sono sempre mancate pagine importanti.
Ben presto però dietro la cattura hanno cominciato a insinuarsi i sospetti, nonostante le parole del comandante generale dei carabinieri Teo Luzi che ha cercato di fugare ogni dubbio.
Nessuna trattativa, nessun mistero, nessun complotto, nessun segreto inconfessabile per Luzi che ha spiegato passo dopo passo il lavoro che si è concluso con le manette del boss. Un gioco di squadra che alla fine si è rivelato vincente. «È il metodo del Generale Dalla Chiesa», ha detto.
Il numero uno di Cosa Nostra – irreperibile dopo l’arresto di Totò Riina – si è consegnato perché gravemente malato. È questo uno dei commenti più letti, ma il padre Francesco, quel don Ciccio che mandava il figlio a regolare i conti con gli uomini d’onore, è morto da “uomo libero”, il 30 novembre 1998. Stroncato da un infarto durante la latitanza. Il suo corpo fu fatto ritrovare nelle campagne di Castelvetrano, vestito di tutto punto, pronto per le esequie.
Matteo Messina Denaro è l’unico, tra i volti noti, a non aver mai fatto un giorno di carcere perché avrebbe scelto di passare gli ultimi anni della sua vita dietro le sbarre? «Per essere curato gratis dallo Stato» si legge nei commenti, ma al boss i soldi non sono mai mancati e nemmeno, questo è un dato di fatto, le corsie preferenziali. Lo dimostrano le prime immagini trapelate dell’ultimo covo, un appartamento a Campobello di Mazara di proprietà sempre di Andrea Bonafede, nipote di un fedelissimo. Arredamento ricercato, vestiti di lusso, ricevute di ristoranti, pillole per le prestazioni sessuali: tutto parla di lusso, come ha vissuto la sua latitanza “alla luce del sole”.
«Per me era un signore che diceva buongiorno e buonasera, salutava sempre» sussurra un compaesano ai microfoni di uno dei tanti giornalisti che si sono precipitati a Campobello di Mazara, diecimila anime e nessun testimone.
Del tesoro, quello vero a partire dal famoso papiello del Capo dei Capi, nessuna traccia.
E poi perché dovrebbe piegarsi alla Stato un uomo che quando i Carabinieri hanno chiesto come si chiamava ha risposto, con fare arrogante “Matteo Messina Denaro”?
Ci sono, infine, le parole di Salvatore Baiardo, un pentito fuori dai giochi. L’uomo che coprì la latitanza dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano aveva parlato della malattia di Messina Denaro e della possibilità che si consegnasse alle Forze dell’Ordine, come risultato di una trattativa tra lo Stato italiano e la mafia. Insomma, uno dei criminali più pericolosi in cambio di qualche modifica sull’ergastolo ostativo.
Ma il fatto che il boss fosse gravemente malato era noto da tempo negli ambienti investigativi e ancor di più in quelli mafiosi: non dovrebbe sorprendere, quindi, che Baiardo ne fosse al corrente. Un po’ di tempo fa c’era stata anche una lite tra criminali sulla morte del boss. Qualcuno aveva osato mettere in giro la voce che “Ignazieddu” era passato a miglior vita, salvo poi essere ripreso da un altro che lo aveva invitato a «chiedere scusa…» per quelle parole.
Una cosa è certa, l’ultimo super latitante, ossessionato dalle intercettazioni, è stato incastrato per quello.