
28 marzo 1997. Venerdì Santo. Una motovedetta albanese rubata nel porto di Saranda da gruppi criminali che gestivano il traffico di immigrati clandestini partì da Valona carica di profughi che cercavano di raggiungere le coste italiane lontane dal Paese delle Acquile solo qualche braccio di mare. Sulla piccola imbarcazione, progettata per 10 uomini dell’equipaggio, avevano trovato posto centinaia di disperati: uomini, donne e bambini in fuga dall’Albania in piena rivolta. Sognavano l’Italia che dagli schermi della televisione appariva “un’isola felice”. Promesse naufragate a una trentina di miglia da Brindisi.
L’orologio aveva appena segnato le 18.45, quando la carretta del mare affondò, dopo un urto con la corvetta della Marina militare italiana ‘Sibilla’. Per la Katër i Radës il destino è segnato da quell’impatto: la nave si adagia sul fondale a circa 800 metri di profondità. Solo 34 persone riescono a salvarsi.
Quando il relitto viene riportato alla luce e trascinato a riva, furono ritrovati 52 cadaveri (11 uomini, 16 donne e 25 bambini), ma la conta dei morti sarà più drammatica e mai definitiva. Nella tragedia del Venerdì santo nel canale di Otranto persero la vita 81 clandestini. 20 i dispersi per sempre. Uomini, donne e bambini che per quella traversata non avevano pagato nulla. Sperare, almeno per una volta, era gratis.
Il naufragio della speranza
Ore 17.15. La nave fu avvistata al largo dell’isola di Sàseno dalla fregata Zeffiro, impegnata nell’operazione Bandiere Bianche, nome in codice con cui era nota l’operazione di blocco navale realizzata per limitare gli sbarchi delle carrette del mare provenienti dalle coste albanesi. Secondo quanto ricostruito, l’imbarcazione della Marina Militare intimò alla i Radës di invertire la rotta, ma la motovedetta albanese proseguì. Passano 15 minuti. Tocca alla corvetta Sibilla, che aveva il compito concreto di impedire l’arrivo delle imbarcazioni cariche di profughi, tentare di allontanare la barca. Alle 18:45 avvenne l’urto. La nave albanese si ribalta e alle 19:03 affonda con il suo carico di vite umane, molte più di quante ne potesse contenere. Non hanno avuto scampo, come chi si trovava sul ponte.
La motovedetta albanese fu recuperata qualche mese dopo, per tentare di ricostruire la dinamica della tragedia di Otranto e per restituire ai parenti delle vittime i corpi di quegli sventurati partiti per cercare un futuro migliore e seppelliti in fondo al mare. Al Porto di Brindisi, dove erano stati accompagnati i superstiti all’alba di quel triste giorno fu allestita la camera mortuaria, capace di ospitare almeno cento corpi. La «nave della morte» ne restituì più di cinquanta.
Qui, i parenti delle vittime hanno riconosciuto i loro cari scomparsi nel naufragio. Finito questo triste rito legale, le salme sono state reimpatriate per la sepoltura.