Il Delitto dell’armadio, l’omicidio di Antonella Di Veroli

L’omicidio senza colpevoli di Antonella Di Veroli, la consulente del lavoro uccisa e nascosta in un armadio della sua abitazione nel quartiere Talenti. Era il 10 aprile 1994

Roma, 12 aprile 1994. Le lancette dell’orologio avevano da poco segnato le 5.00, quando l’orrore nascosto in un appartamento del quartiere Talenti si svela agli occhi di chi aveva superato porta. Il disordine, insolito per la padrona di casa – Antonella Di Veroli, consulente del lavoro di 47 anni metodica e abitudinaria – era solo il primo indizio che qualcosa non quadrava. L’odore di mastice proviene dall’armadio in camera da letto svela il resto. Qualcuno aveva sigillato le ante, per nascondere il corpo della donna, trovata sepolta sotto un cumulo di vestiti accatastati alla rinfusa. Indossa un pigiama celeste, ha una busta di plastica in testa.

Tocca fare un passo indietro e tornare al 10 aprile, giorno dell’ultima telefonata della donna. Dopo la chiamata su Antonella è calato il silenzio. Preoccupata, la mamma aveva provato a cercarla più volte, ma al telefono aveva risposto sempre la stessa voce maschile: quella della segreteria telefonica che aveva registrato gli ultimi contatti. L’ultimo di Umberto Nardinocchi, un ragioniere di 63 anni con il quale la donna aveva avuto una relazione. Qualcuno li aveva visti litigare, forse per soldi, forse per gelosia. Come la sorella e il marito, che avevano deciso di controllare l’appartamento, anche l’uomo, socio in affari di Antonella, si era precipitato in casa della consulente con suo figlio e un amico poliziotto.

L’omicidio senza colpevole

Antonella è stata uccisa con due colpi di pistola, una di piccolo calibro, forse una Beretta. È stata lei a fare entrare in casa il suo assassino dato che la porta non è stata forzata, ma, incredibilmente, non sono stati gli spari esplosi a distanza ravvicinata usando come scudo un cuscino a ucciderla. Siccome non è morta subito, il killer ha stretto attorno al collo della donna un sacchetto. Poi l’ha chiusa nell’armadio.

Si scava nella vita privata di Antonella. Si scopre che ha avuto una relazione con un fotografo cinquantenne, Vittorio Biffani, sposato. È sua la voce che risponde sulla segreteria telefonica.

Per questo fotografo ha perso la testa. Gli ha prestato 42 milioni di lire e lui le ha donato un orologio d’oro appartenente alla sua famiglia. Ma poi l’ha lasciata, perché sua moglie, che aveva scoperto tutto, aveva cominciato a tempestare di telefonate Antonella. Prima per chiederle di lasciare in pace suo marito, poi per farsi restituire l’orologio.

Gli investigatori prediligono la pista passionale. Sottopongono Nardinocchi e Biffani all’esame dello stub e sulle mani di entrambi trovano tracce di polvere da sparo. Il ragioniere ha un alibi di ferro: due giorni prima è stato al poligono. E smentisce di aver avuto con lei delle liti per gelosia: sostiene di aver scoperto della relazione con il fotografo solo dopo la sua morte.

Il fotografo, invece, non sa spiegare la polvere da sparo sulle sue mani, anche se non era neanche il suo. Lo avevano invertito per errore con quello di qualcun altro. C’è però il debito di 42 milioni di lire e tanto basta. Il suo nome finisce sul registro degli indagati insieme a quello della moglie, accusata di tentata estorsione e minacce. Ma, durante il processo, come detto, si scopre che nei suoi confronti è stato commesso un errore clamoroso: il Dna sul reperto dello stub non è di Biffani, ma di un’altra persona. Qualcuno ha scambiato i campioni. Viene assolto per tre volte, fino in Cassazione. Nel 2003 muore.

La pista sentimentale non porta da nessuna parte. E allora, chi ha ucciso Antonella? Al processo sono state sentite 106 persone, ma le domande senza risposta sono rimaste tante.



In questo articolo: