Pochi oggi conoscono la storia di Antonietta Longo, la domestica di origini siciliane trovata senza vita il 10 luglio 1955 sulle rive del Lago Albano, ma per molti anni l’omicidio occupò le pagine di cronaca nera con il suo carico di misteri, ipotesi e domande senza risposta. La «decapitata di Castel Gandolfo», scrivevano, per raccontare di quella donna che aveva lasciato Mascalucia, un piccolo comune in provincia di Catania, per guadagnarsi da vivere onestamente e che aveva trovato la morte forse perché si era fidata dell’uomo sbagliato. Il caso resterà irrisolto, senza colpevoli e senza giustizia. E pian piano il tempo ha cancellato il ricordo di quel delitto che ispirò un film di Federico Fellini.
Un corpo senza testa, un orologio e un appuntamento con l’amore
Dopo aver lasciato la sua Sicilia, Antonietta aveva trovato lavoro come cameriera in casa della famiglia di Cesare Gasparri, funzionario del Ministero dell’Agricoltura, ma la sua storia è finita in un caldo pomeriggio di luglio, quando due amici di vecchia data – il meccanico Antonio Solazzi e il sagrestano Luigi Barbon, in gita sul lago di Castel Gandolfo – trovarono tra i cespugli il suo corpo senza vita. Nudo, coperto solo un giornale, una copia del Messaggero del 5 luglio 1955. Sollevando i fogli, i due si accorsero con orrore che mancava la testa. Spaventati, remarono fino a riva e si chiusero in silenzio per paura di essere coinvolti o accusati ingiustamente di quell’orrore.
48ore dopo la macabra ‘scoperta’ raccontarono tutto alle forze dell’ordine e cominciò il giallo della “decapitata di Castel Gandolfo”. Difficile dare un nome a quel corpo offeso, colpito più volte e scaricato sulle rive del Lago. Si brancolava nel buio, ma fu un orologio Zeus, fermo alle 3.37, che la donna aveva al polso ad indicare una strada da seguire. L’assassino si dimenticò di toglierlo, oppure pensò fosse un oggetto comune, ma non lo era. Di quella marca e modello ne erano stati venduti solo 150 esemplari. Incrociando i dati delle gioiellerie con quelli delle persone scomparse si arrivò alla verità. Quel corpo era di una cameriera siciliana, Antonietta Longo. La svolta sul caso di Ninetta, come la chiamavano in famiglia, arrivò grazie a un orologio.
L’orrore dall’autopsia
Il medico legale incaricato di svolgere l’autopsia svelò l’orrore. Prima di essere decapitata, post mortem, da “mani esperte”, Antonietta era stata colpita più volte al ventre e alla schiena. 13 coltellate, sette sferrate mentre era voltata di spalle, forse mentre stava ammirando il lago. Non solo, alla ragazza erano state asportate le ovaie mentre era ancora viva, forse per un aborto finito male. E se il movente fosse stato proprio una gravidanza da nascondere? Nessuna pista era stata esclusa. Nemmeno quella della truffa finita in tragedia.
La domestica, infatti, pochi giorni prima di essere uccisa aveva prelevato dall’ufficio postale di piazza San Silvestro tutti i suoi risparmi, più di 213mila lire, una cifra di tutto rispetto negli anni cinquanta. Antonietta era una gran lavoratrice, una ragazza umile, per bene che faticosamente aveva messo da parte quei soldi, spariti insieme alla verità. Forse qualcuno le aveva fatto credere di volerla sposare, salvo poi scappare con il “bottino” non prima di averla uccisa. Ipotesi.
Altri dettagli emersero dalla ricostruzione degli ultimi giorni di vita di Antonietta. La donna, il 4 aprile aveva lasciato una valigia con degli indumenti nel deposito bagagli della stazione Termini. Il 24 giugno ne aveva riempito un’altra di biancheria, vestiti e altri oggetti che, al tempo, fecero pensare a un corredo matrimoniale. Il 26 giugno, aveva chiesto alla famiglia Gasparri un mese di ferie, forse per tornare in Sicilia. E aveva in mano anche un biglietto, per il 1 luglio, ma sul treno non salì mai.
Trascorse qualche giorno in una pensione. Il 5 luglio, forse il giorno della morte, imbucò a Roma una lettera indirizzata alla sua famiglia, nella quale informava i familiari che stava per sposarsi. Da quel momento non si seppe più nulla. Un testimone raccontò di aver noleggiato la barca numero 3 a una coppia che non aveva fatto ritorno al pontile. Il giorno dopo fu ritrovata nel canneto, con un solo remo.
Le lettere anonime
Due anni dopo l’omicidio, un detenuto del carcere di Regina Coeli accusò suo cognato, Giuseppe Bucceri di essere il responsabile del delitto: «È un uomo abituato a truffare le donne promettendo di sposarle», rivelò. «Una volta, a una donna che aveva minacciato di denunciarlo, aveva detto che se lo avesse fatto le avrebbe tagliato la testa». Ma anche questa pista risultò inattendibile e venne abbandonata. Tutte le strade portarono ad un vicolo cieco e con il passare del tempo il ricordo della ‘decapitata del Lago’ si sbiadì.
A rispolverarlo, nel 1971, fu una lettera anonima, recapitata al dottor Gasparri. Qualcuno aveva sentito il bisogno di contattare l’ex datore di lavoro della giovane per raccontargli che Antonietta sarebbe morta accidentalmente durante un aborto e che era stata costretta a farlo dal suo fidanzato Antonio, un pilota capo di una banda di contrabbandieri che era già sposato e che lei minacciava. A cose fatte sarebbe stata trasportata in riva al lago e poi decapitata. Una seconda missiva giunse sul tavolo del procuratore generale della Corte d’appello di Roma.
Il fidanzato Antonio
Antonio, questo il nome del ‘fidanzato’ di Antonietta. Un uomo sposato, si è detto, che la 30enne avrebbe minacciato di smascherare. Si raccontò che lo mise alle strette, chiedendogli di sposarla o chiedendogli di restituire i soldi che gli aveva prestato. A quel punto, lui avrebbe deciso di ucciderla promettendole un matrimonio che non ci sarebbe mai stato. Forse l’ha invitata a una gita al lago Albano, dove l’avrebbe colpita con diverse coltellate e decapitata. Si raccontò anche di un traffico di contrabbando. L’Antonio di cui tanto si parlò era un contrabbandiere che “si era servito di Antonietta per i suoi traffici”.
A carico dell’uomo, però, non risultò nessuna prova e anche questa pista venne abbandonata.
«Morirò senza avere avuto una sola notizia certa sulla morte di Antonietta!… Sono stanca e ammalata, non ho più niente da dire, tranne che ho sofferto tanto». Nella parole di Grazia Longo, sorella di Antonietta, c’è tutto il dramma vissuto da una famiglia che ha cercato la verità e non l’ha mai trovata.
L’orologio marca Zeus e quel poco che venne ritrovato accanto al suo corpo senza vita sono esposti al Museo Criminologico di Roma.
