21 luglio 1979. Sette colpi di pistola, sparati alle spalle, mettono fine alla vita di Giorgio Boris Giuliano, capo della Squadra mobile di Palermo. Ad impugnare la Beretta 7,65 che ha condannato a morte è stato il boss Luchino Leoluca Bagarella. Un omicidio commissionato da Cosa Nostra per punire lo “sceriffo” – come era stato soprannominato per il suo grandissimo fiuto, ma anche i suoi lunghi baffi neri simili a quelli dei detective americani – per le sue indagini sul traffico di droga. “Follow the money”, era questo il motto di Giuliano che aveva avuto un’intuizione: seguire il denaro per ricostruire gli affari della mafia. Aveva capito che il lavoro di squadra poteva fare la differenza.
Non solo, aveva ficcato il naso sulla scomparsa di Mauro De Mauro, il giornalista de “L’Ora” che nel 1970 stava cercando di far luce sulla morte di Enrico Mattei. Aveva acceso i riflettori sull’omicidio di un altro giornalista, Mario Francese e su quello del boss Giuseppe Di Cristina da cui intuisce il collegamento con il riciclo dei soldi di Michele Sindona.
L’omicidio di Boris Giuliano
Un omicidio annunciato con una chiamata alla Questura di Palermo. Era il 29 aprile 1979 quando una voce ripeteva questo avvertimento: “Giuliano morirà”. Non era la prima volta che accadeva, ma purtroppo fu l’ultima. Cosa Nostra non guardava in faccia nessuno. È una mafia che spara alle spalle come avvenne quella mattina del 21 luglio, quando il Commissario, un uomo con la schiena dritta, fu colpito mentre stava pagando il caffè in un bar che si affacciava su via Francesco Paolo Di Blasi.
Sette i “messaggi” recapitati, l’ultimo – il colpo di grazia – alla nuca, quando il vicequestore era già a terra. A premere il grilletto era stato il boss dei corleonesi, cognato e braccio destro di Totò Riina. Mancavano cinque minuti alle otto.
Quando i cronisti giunsero sul posto, a nessuno fu concesso di vedere il cadavere del poliziotto amato da tutti. Fu la “squadra”, quella creata dal vicequestore, che cercò di proteggere quel corpo senza vita dai flash. La notizia della morte di Boris Giuliano finisce in prima pagina, ma nessuno ha il coraggio di firmare gli articoli. In quel caldo luglio del 1979 finisce la vita del commissario – uno “sbirro” con una dote rara: l’umanità – che aveva scoperto troppo, che aveva capito “Cosa nostra” quando ancora era misteriosa e impenetrabile. Morì a 49 anni, lasciando una moglie e tre figli piccoli. Uno di loro, Alessandro, ha seguito la strada del papà.
“Mio padre – ha dichiarato – ha lasciato due messaggi. A me e a tutte le nuove generazioni che fanno questo mestiere. Bisogna scegliere di fare il proprio dovere fino in fondo. E si può essere poliziotti senza dimenticarsi di essere uomini”
Totò Riina, Bernardo Provenzano e Filippo Marchese verranno condannati, come mandanti dell’omicidio, con la sentenza definitiva del maxiprocesso di Palermo, istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.