L’omicidio di Mino Pecorelli, il giornalista che sapeva troppo

Quattro colpi, uno in bocca e tre alla schiena. Così fu ucciso Mino Pecorelli, il giornalista dell’«Osservatore Politico» freddato in auto, nel quartiere Prati di Roma. Era il 20 marzo 1979.

Quattro colpi di pistola calibro 7.65, uno in bocca e tre alla schiena, condannarono a morte Carmine Pecorelli, Mino per tutti. Era il 20 marzo 1979. L’orologio aveva da poco segnato le 20.45, minuto più, minuto meno, quando il giornalista, che aveva fondato l’«Osservatore Politico», fu ucciso da uno sconosciuto non lontano dalla redazione del periodico, al civico numero 50 di via Tacito. Quell’uomo con l’impermeabile bianco che ha premuto il grilletto resta ancora oggi senza nome, così come i mandanti che hanno ordinato l’omicidio.

A volere morto “il cantante”, come lo chiamavano nel Palazzo, erano in tanti, perché Pecorelli non era un giornalista qualunque. Sulle colonne di Op, ha sempre cercato di scrivere la verità scavando a fondo, cercando i contatti giusti. O pezzi di verità nascosti, si dice, in messaggi cifrati e apparentemente incomprensibili.

Di certo non era uno che se l’è cercata, come volevano alcune insinuazioni, anche all’indomani della sua morte, che avevano rinfocolato la sua fama di ricattatore. Non lo era, lo dimostrava il suo stile di vita, le difficoltà della rivista, piena di debiti, e soprattutto il conto in banca.

L’omicidio

Mino, una delle penne del giornalismo più temute, aveva appena acceso il motore della sua Citroën per tornare a casa, quando fu freddato da quattro colpi, sparati col silenziatore attraverso il finestrino. Per Pecorelli, 51 anni, non c’era più nulla da fare. Quando gli uomini delle forze dell’ordine, giungono sul posto, nel quartiere Prati di Roma, scoprono la prima stranezza. A stroncare la vita del giornalista erano stati dei proiettili «Gevelot», francesi, molto rari, persino sul mercato clandestino, ma dello stesso tipo di quelli trovati nell’arsenale della Banda della Magliana, scoperto nei sotterranei del Ministero della Sanità nel 1981. Poi il colpo sparato in bocca, tipico delle esecuzioni mafiose.

Chi l’ha ucciso Mino Pecorelli? Le piste

Le tante strade battute per cercare i responsabili dell’omicidio della penna ‘scomoda’ per i potenti non hanno mai portato a nulla. Vicoli ciechi in una vicenda ancora avvolta nel mistero. Le indagini seguirono più direzioni, quella di Massimo Carminati e della Banda della Magliana. La segretaria di Pecorelli, all’epoca compagna del giornalista, confidò che, qualche giorno prima dell’omicidio era sicura di essere stata seguita da uno sconosciuto, poi riconosciuto nell’uomo responsabile del falso comunicato n. 7 delle Brigate Rosse in cui si annunciava la morte di Aldo Moro e la sua sepoltura presso il lago della Duchessa. Una delle tante ipotesi vagliate mentre si cercava mandante e movente.

Fu sospettato anche Licio Gelli (estraneo ai fatti). Fu battuta la pista di Cosa Nostra e quella dei falsari di Giorgio De Chirico. Niente fino al 6 aprile 1993, quando Tommaso Buscetta, condannato all’ergastolo per aver ordinato l’omicidio di “Peppino” Impastato, parlò della prima volta degli intrecci tra mafia e politica. La scomparsa di Pecorelli – confessò il boss pentito – era nell’interesse di Giulio Andreotti. Il movente? Pecorelli minacciava di dire la verità sul sequestro Moro e su altri segreti, rimasti fino a quel momento sepolti.
Chiunque sia finito alla sbarra, senatore a vita compreso accusato di essere il mandante dell’omicidio, fu assolto. La motivazione è identica per tutti: non hanno “commesso il fatto”. Nessun colpevole, insomma.

Il legame con il caso Moro

Durante i 55 giorni di prigionia, il settimanale aveva pubblicato 4 lettere inedite del leader della Dc, rapito in via Fani. «Moro è vittima anche lui, però prima ed oltre che dei terroristi, di una ferrea logica di omertà politica che gli ha impedito di rivelare cose che certamente sa, di indicare quali e quanti “scheletri” sono nascosti negli armadi…», si leggeva.

Sul legame tra i due casi sono stati scritti fiumi di parole. È stato detto che nelle mani di Pecorelli finì il famoso memoriale di Aldo Moro, non la copia ritrovata “per caso” nel covo delle Br in via Montenevoso, a Milano. È stato detto tanto altro, ma forse non abbastanza.

A distanza di tanti anni resta forte il sospetto che il giornalista sia stato ucciso non per qualcosa che aveva detto, ma per quello che avrebbe potuto dire.



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