23 giugno 1980. Alle 8.00 in punto Mario Amato, sostituto procuratore della repubblica di Roma, esce di casa per andare a prendere l’autobus. La sua auto era dal meccanico, quella dell’ufficio sarebbe arrivata non prima delle 9.00, troppo tardi per raggiungere il suo ufficio in piazzale Clodio, e quella di scorta l’aveva rifiutata per i colleghi che indagavano sul “più pericoloso” terrorismo rosso.
Fa pochi passi, quando alla fermata della line 391, di fronte al civico 272 di viale Jonio, viene ucciso da un colpo di arma da fuoco. Un solo proiettile, mortale, di calibro 38 special, la stessa – si è pensato per anni – usata dal «killer dagli occhi di ghiaccio» per uccidere Piersanti Mattarella.
Fu «un omicidio più facile di uno scippo» come scrisse il giornalista Andrea Purgatori, sulla prima pagina del Corriere della Sera. Solo, per strada, è stato ‘facile’ sparargli alle spalle, senza nemmeno guardarlo in faccia.
«Ho avuto la sensazione che un uomo vestito di beige lo stesse seguendo», raccontò un testimone. Alto circa un metro e 75, viso scoperto, capelli bruni e abiti da travet, era la descrizione. A premere il grilletto, si capirà dopo, è stato Gilberto Cavallini, membro dei Nar che dopo aver lasciato per terra, senza vita, il giudice, fugge su una moto di grossa cilindrata guidata da Luigi Ciavardini, diciasettenne. I mandanti? Valeria Mambro e Giusva Fioravanti, leader del terrorismo nero. Nomi che conquisteranno gli onori della cronaca per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto.
La sera che uccise Amato, Cavallini, con Fioravanti e la Mambro, era a Treviso. Festeggiarono cenando con ostriche e champagne. Raccontò dell’emozione provata al momento dello sparo, della vampata della pistola, dei capelli della vittima che si erano aperti volando via. «Ho visto il soffio della morte» disse.
Dopo l’omicidio, i fotografi scattano le foto da mandare ai giornali. Il lenzuolo bianco, il capannello di persone in via Monte Rocchetta, nel quartiere romano di Montesacro, ma ad un cronista non fugge un dettaglio che racconta tanto del magistrato. Sulla punta di una scarpa, la sinistra, c’è un buco che parla di un marito, di un padre, uomo attaccato al lavoro, vissuto come una missione, dicono di chi non vuole perdere tempo, né occupandosi delle suole di una scarpa logora né aspettando una macchina pigra.
«Amato ha chiuso la sua squallida esistenza, imbottito di piombo»
Dopo l’attentato mortale, il gruppo – che ancora oggi rimane un enigma da risolvere – rivendica l’omicidio. Il giorno dopo, i Nar chiamano il quotidiano “La Repubblica” per indicare il luogo dove avevano ‘nascosto’ un documento di rivendicazione, dal titolo “Chiarimenti”. “Siamo i Nar, abbiamo ucciso noi il giudice Amato. Troverete un volantino nella cabina telefonica di via Carlo Felice”.
«Non c’è bisogno di covi né di grandi organizzazioni: tre camerati fidati e di buona volontà bastano. Amato ha chiuso la sua squallida esistenza, imbottito di piombo. Altri la pagheranno», si legge nel documento. Sarà l’ultimo magistrato vittima del terrorismo politico in Italia. Sono trascorsi 97 giorni dall’assassinio del giudice Giacumbi, 98 da quello del giudice Minervini, 100 da quello del giudice Galli.
Un giudice lasciato solo
Amato era tornato a Roma da tre anni, per riprendere le indagini sul terrorismo di destra lasciate da Vittorio Occorsio, collega ucciso nel 1976 da Pierluigi Concutelli, considerato il capo militare del Movimento politico ordine nuovo. Un’eredità scomoda, una battaglia che ha combattuto senza nessuno.
Durante la sua audizione del 25 marzo davanti al Consiglio superiore, che aveva avviato un’inchiesta sulla gestione della Procura di Roma, il magistrato racconta che era stato lasciato solo a scoprire i segreti della destra nera e i con la Banda della Magliana.
«Sono stato lasciato completamente solo a fare questo lavoro, per un anno e mezzo. Nessuno mi ha mai chiesto cosa stesse succedendo. Solo una volta sono stato chiamato dal procuratore capo a proposito del nominativo di un collega trovato nell’agenda di un professore arrestato. Recentemente ho molto insistito per avere un aiuto sia perché sono stato bersagliato da accuse e denunce in quanto vengo visto come la persona che vuole “creare” il terrorismo nero, sia perché le personalizzazioni tornano a discapito dello stesso ufficio. Affiancandomi dei colleghi sarebbe possibile, infatti, sia ridurre i rischi propri della personalizzazione dei processi, sia darmi un conforto in quanto, se dei colleghi giungessero a conclusioni analoghe alle mie, sarebbe evidente che le stesse non sarebbero frutto della mia asserita faziosità. Oltre a tali motivazioni vi è, poi, anche quella che non ce la faccio più da solo perché è un lavoro massacrante che comporta la necessità di tenere a mente centinaia di nomi e centinaia di dati, il che è impossibile per una persona sola. Nonostante, peraltro, le più reiterate e motivate richieste di aiuto, a tutt’oggi, tale aiuto non mi è stato dato».
Il 13 giugno, alle 9.30, Amato si presentò per la seconda volta davanti al Csm e racconta di più del suo lavoro: «Si tratta di un ambiente che ha legami e diramazioni dappertutto. Specialmente per il fatto che ero il solo a svolgere detta attività mi sono trovato più volte esposto ad attacchi o della stampa, o dei legali che sono molto legati a certi ambienti. Costoro hanno cercato più volte di mettermi in cattiva luce e di indicarmi come persona faziosa, che non sa fare il proprio lavoro e cose del genere».
Il giudice non solo non viene supportato nelle sue ricerche, ma viene addirittura scoraggiato e osteggiato dai sui colleghi. Un nome su tutti, rimbalza spesso tra le cronache di allora, quello del giudice istruttore Antonio Alibrandi, padre di Alessandro, detto Alì Babà, esponente di primo piano dei NAR e amico fraterno dei fratelli Fioravanti, rimasto ucciso in un conflitto a fuoco in cui muore anche l’agente Ciro Capobianco. Entrambi avevano solo 21 anni.
La morte di Mario Amato suscitò una protesta senza precedenti: il giorno dopo i magistrati romani proclamarono uno sciopero a oltranza e l’astensione dalle udienze per due settimane provocò il rinvio di circa 4 mila dibattimenti, costringendo il governo Andreotti a correre ai ripari per garantire la sicurezza delle toghe. Fu redatto un elenco di magistrati più a rischio (178). Per loro si disposero scorte, controlli sotto casa e aumenti di stipendio. Il 28 giugno il ministero della Giustizia fece arrivare le prime auto blindate.