
Un matrimonio da favola, una fiaba moderna che occupava le prime pagine delle riviste rosa, ma che non ha avuto un lieto fine. È la storia di Maurizio Gucci, storico presidente dell’azienda di moda e Patrizia Reggiani, la moglie che ha commissionato il suo omicidio. Un crimine pianificato nei minimi dettagli, animato dal rancore e dal desiderio di vendetta, dall’odio e dalla rabbia di una donna abbandonata che aveva paura di perdere tutto.
Milano, 27 marzo 1995
L’orologio aveva da poco segnato le 8.30, quando l’imprenditore uscì dalla sua abitazione che si affaccia su corso Venezia come faceva ogni giorno. Era diretto al suo ufficio, al civico numero 20 di via Palestro, nel cuore di Milano, quando si accorse che qualcuno lo stava seguendo. Raggiunse il palazzo signorile affacciato sui Giardini di Porta Venezia, salutò il portiere Giuseppe Onorato, ma il silenzio di quella soleggiata mattina di inizio primavera fu interrotto da tre colpi di pistola maldestri. Il quarto, dritto alla tempia, fu fatale per il Presidente, elegantissimo come è un erede dell’impero che ha contribuito a diffondere il made in Italy in tutto il mondo.
Gucci si accasciò senza vita sui gradini di quell’androne di legno e marmo. L’assassino si guadagnò la via di fuga, rivolgendo la pistola contro Onorato. Sparò due colpi e salì sul sedile passeggero di una Renault Clio verde guidata da un’altra persona, che si allontana sgommando. Il portiere aveva notato l’auto, parcheggiata davanti al portone. Da quando una bomba aveva ucciso cinque persone davanti al padiglione di arte contemporanea, era solito fare attenzione ai dettagli.
Una pista seguita, un’altra ignorata
Le indagini si concentrarono sull’azienda di famiglia, guidata da Maurizio, dopo la morte del padre Rodolfo nel 1983. L’imprenditore aveva acquistato la quota del cugino Paolo che, nel 1980, aveva lanciato senza consenso una collezione che fu un successo. Dettaglio che gli costò il licenziamento e una causa per sfruttamento illegittimo del marchio. Anche lo zio Aldo era stato estromesso. Sulla sua testa una causa e l’accusa di aver sottratto diversi milioni dalle casse aziendali tant’è che, quando fu arrestato negli Stati Uniti per evasione fiscale scontò un anno di carcere.
È sulla faida familiare che si concentrarono le prime indagini, ma era un vicolo cieco. Il nome di Patrizia Reggiani, la ex moglie che dopo il divorzio avvenuto nel 1994 continuava a usare il cognome Gucci anche se le era stato proibito («l’unica vera Gucci sono io», diceva), comparve solo in un secondo momento. Eppure parlava spesso di voler far uccidere l’ex marito, senza segreti, senza veli. Non lo faceva di nascosto né a mezza voce.
Anche Paola Franchi, la compagna di Maurizio Gucci al momento dell’omicidio, aveva confidato agli investigatori delle minacce che riceveva da tempo. Il giorno della morte dell’imprenditore, la ex signora Gucci si era presentata alla porta della casa dove vivevano, intimandole di andarsene. Aveva preteso che ogni cosa, compresi gli abiti di Maurizio e la biancheria della casa, fossero lasciati dov’erano. Il giorno seguente Reggiani, con le due figlie, si era trasferita lì. A Franchi fu anche impedito di partecipare al funerale del compagno.
La verità non sta in nessuna delle mille piste che per due anni non hanno condotto da nessuna parte. La svolta nelle indagini arrivò nel 1997, grazie ad un informatore della polizia. La soffiata conduce a un certo Ivano Savioni, il portiere di un albergo a una stella con la lingua troppo lunga. L’uomo si ‘vanta’ di aver partecipato all’omicidio di Maurizio Gucci e di essere stato pagato 50 milioni di lire. Pochi, troppo pochi, si lamenta, perché quella lì è ricca sfondata mentre lui rischia di finire al gabbio.
Le cimici piazzate nell’hotel hanno fatto il resto. In una intercettazione telefonica Pina Auriemma, ex proprietaria di due boutique a Portici e a Napoli, maga dilettante, organizzatrice di sedute spiritiche e diventata molto amica di Reggiani, era stata rassicurata da Savioni «Dammi retta, Iva’: se non facciamo qualche cazzata, non ci piglieranno mai».
Il conto da pagare con la giustizia
Li pigliarono poche settimane dopo. Per gli investigatori la dinamica era chiara: Reggiani aveva incaricato Auriemma di trovare qualcuno che si incaricasse di uccidere il marito. Insomma, la ex Lady Gucci aveva incaricato la maga di trovare una “Banda Bassotti” (Auriemma aveva chiesto a Savioni che a sua volta aveva contattato l’amico Orazio Cicala, ex titolare di una pizzeria e di una pasticceria ad Arcore, fallito per i debiti accumulati con il vizio del gioco. Cicala, a sua volta, aveva assoldato il sicario, Benedetto Ceraulo, siciliano di 35 anni. Per compiere il delitto era stata rubata un’auto che però la sera prima dell’omicidio era stata rimossa dalla polizia locale perché in divieto di sosta. Così Cicala aveva usato l’auto del figlio, la Renault Clio verde.
L’omicidio dell’ex marito costò a Patrizia Reggiani 600 milioni di lire: 50 per l’amica maga Pina, 50 per Savioni, 350 per Cicala, che intanto era finito in carcere per droga, e 150 per il sicario Ceraulo, che negò sempre ogni addebito, quando fu arrestata per omicidio volontario premeditato. lei si mise la pelliccia di visone e indossò tutti i gioielli. Ninni le consigliò di lasciarli a casa, ma lei rispose: «La mia pelliccia e i miei gioielli vanno dove vado io». Ossessionata, accecata dalla gelosia. Disposta a tutto, secondo l’accusa, pur di non perdere lo status di “signora Gucci”.
Nel 2014, dopo 17 anni trascorsi in carcere a San Vittore («Victor’s Residence lo chiamo io, mi sono trovata benissimo lì, sono stati anni di pace: dormivo, mi lavavo e scendevo giù in giardino, avevo un trattamento speciale», disse nell’intervista a Sette), a Reggiani venne concesso di continuare a scontare la pena ai servizi sociali: iniziò a lavorare per la Caritas. Auriemma scontò 13 anni e uscì dal carcere nel 2010 come Savioni che è libero dal 2012 , mentre Cicala, l’autista, è morto. Ceraulo è ancora in carcere.