
Nella storia di Marta Russo ci sono due date che resteranno per sempre impresse nella memoria: quella del 9 maggio 1997, quando la studentessa di Giurisprudenza fu colpita alla testa da un proiettile calibro 22, a punta cava, camiciato e composto da solo piombo mentre con un’amica stava camminando su un vialetto dell’Università La Sapienza di Roma. E quella del 13 maggio, quando le speranze di vederle riaprire gli occhi si spensero per sempre.
Le sue condizioni erano apparse fin da subito disperate, ma in tanti avevano si erano augurati che la lotta contro la morte, combattuta nel letto del Policlinico Umberto I, si sarebbe conclusa in modo diverso. Non fu così, gli undici frammenti avevano causato danni irreversibili. La notte del 14 maggio venne “staccata la spina” ai macchinari che la tenevano in vita e Marta fu dichiarata morta. I genitori e la sorella decisero di donare gli organi, prestando fede a un desiderio espresso dalla ragazza. Il suo cuore ora continua a battere nel petto di Domenica.
Uno sparo all’università, l’omicidio
Non era «uno schiocco», «un sibilo», «una bottiglia che si rompe». Quel rumore descritto da alcuni testimoni era quello di uno sparo. Le lancette dell’orologio avevano da poco segnato le 11.42 quando la studentessa in legge si accascia a terra, in fin di vita, davanti agli occhi terrorizzati dell’amica e compagna di studi Jolanda che stava passeggiando con lei nel vialetto.
Era stata colpita alla testa da un proiettile sparato, si scoprirà, dalla finestra al primo piano della palazzina che ospita l’Istituto di Filosofia del Diritto. Gli investigatori sono sicuri: il calibro 22 è partito dell’aula numero 6 della sala assistenti.
Scatta la caccia all’assassino, ma nelle indagini fin dai primi passi è chiara una cosa: nel delitto manca un pezzo fondamentale, il movente. Chi può aver avuto interesse a uccidere una ragazza per bene che sul diario scriveva “voglio essere felice in questa vita, e non in futuro, ma nel presente, per ogni attimo che vivo. Perché non so quanto potrò vivere e cosa ci sarà dopo”? La vita “fin troppo” normale della ragazza, senza segreti, senza scheletri nell’armadio, senza ex fidanzati rancorosi e vendicativi, non aiuta. Non aiuta il silenzio, quello calato sull’università dopo il delitto.
Il giallo della Sapienza
Per questo nessuna pista sarà esclusa. Nella strada tutta in salita non viene tralasciato nulla, anche la coincidenza della data sarà approfondita. Il 9 maggio è il giorno del ritrovamento del corpo senza vita dell’onorevole Aldo Moro, ‘abbandonato’ nel bagagliaio di una Renault Rossa in via Caetani. Ma il filo che lega la studentessa al Presidente della Democrazia Cristiana come a Peppino Impastato si spezza subito.
Si pensò anche che fosse stata uccisa per errore, per uno scambio di persona. L’obiettivo del killer potrebbe essere Jolanda, la compagna di studi – che qualche giorno prima si era schiarita i capelli “diventando bionda come Marta” – sarebbe stata il vero bersaglio per colpire il padre Renato, funzionario del ministero della Giustizia impiegato nell’ufficio del Dap, il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Non solo, l’ex vicedirettore del carcere di Rebibbia aveva raccontato di aver ricevuto alcune telefonate anonime, con minacce velate che avevano turbato la tranquillità familiare.
Anche questa pista fu abbandonata come a nulla portò il sospetto caduto su alcuni dipendenti di un’impresa di pulizie che, a quanto pare, avevano l’hobby del tiro a segno. Il colpo di pistola poteva essere partito accidentalmente durante una lite.
Tanti i dubbi, poche le certezze. Alla sapienza l’aria è tesa, quasi irrespirabile. Non è facile vivere con il sospetto di avere l’assassino in casa, nascosto da qualche parte.
La svolta
Si volta pagina quando una giovane assistente collegata alla ‘famosa’ Sala 6 finisce sotto torchio. È lei a fare il nome della segretaria che diventerà la super testimone. Dopo un interrogatorio di dodici ore, la donna crolla e racconta di aver visto in quella stanza Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, due giovani assistenti universitari di filosofia del diritto. Le sue parole contengono accuse ben precise: uno impugnava una pistola, l’altro si metteva le mani sulla testa “in un gesto di disperazione“. In tanti sono perplessi: non c’è nessuna prova certa della loro colpevolezza, la prova «ogni ragionevole dubbio» che furono loro gli autori di quell’atroce delitto, ma neanche indizi che possano scaglionarli del tutto, confermare la loro innocenza.
Non c’era movente, non c’era l’arma del delitto (la beretta calibro 22 ritrovata nell’intercapedine di un bagno del rettorato non è la pistola che ha ucciso Marta Russo), solo chiacchiere su un delitto perfetto, una dimostrazione senza vittime, particelle di polvere da sparo, alibi, testimonianze e misteri, tanti…troppi.
Basterebbe che ammettessero che il colpo è partito per sbaglio, maneggiando incautamente una pistola poi mai più ritrovata, senza immaginare che fosse carica, col braccio teso fuori dal davanzale della maledetta finestra. Probabilmente se la caverebbero con poco. Gli inquirenti avrebbero concluso l’indagine, l’opinione pubblica avrebbe avuto il colpevole tanto cercato e anche la famiglia Russo, forse, avrebbe avuto giustizia. Ma i due, che va detto non avevano un alibi, continuano a dichiararsi innocenti.
La storia del delitto perfetto
Alcuni studenti raccontano che i due ripetevano spesso che in assenza di tre elementi (il luogo, il movente e l’arma) non è possibile rintracciare il responsabile di un assassinio. Quella mattina, gli assistenti erano passati dalla teoria alla pratica: volevano provare che si può sparare da una finestra dell’università soltanto per creare allarme e poi andarsene a casa come se niente fosse successo, ma non avrebbero calcolato la traiettoria del proiettile. Non avendo confidenza con le armi, non avevano tenuto conto che uno sparo provoca sempre uno spostamento della mano verso destra. Così Marta era caduta a terra, vittima del “delitto perfetto”. La teoria del folle gioco finito in tragedia cade.
Per la giustizia i due assistenti sono colpevoli: dopo cinque processi sono stati condannati in via definitiva per aver ucciso Marta Russo.