Chi non rispettava le regole doveva pagare, anche con la vita. È scritto nero su bianco nelle oltre 600 pagine dell’ordinanza a firma del Gip Simona Panzera che descrive il metodo mafioso del clan, pronto a ‘punire’ i comportamenti poco rispettosi degli affiliati considerati infami. Diversi gli episodi citati dal Giudice per le indagini preliminari come il ‘piano’ per uccidere P. N. partito dal Carcere dove si trovava Cristian Pepe, a capo insieme al fratello Antonio, noto con il soprannome di “Totti”, del clan che aveva ‘conquistato’ Lecce.
L’uomo aveva ‘ordinato’ a Manuel Gigante e Gianluca Palazzo di togliere di mezzo il ragazzo, considerato un infame e irrispettoso delle regole per non aver aiutato economicamente chi si trovava in cella e le loro famiglie con i guadagni del traffico di sostanze stupefacenti. Anche Antonio Marco Penza, conosciuto nell’ambiente come “Palestrato”, aveva garantito il suo appoggio con un suo uomo, un certo Sandrino e procurando la moto con cui agire e l’arma, una pistola. Salvo poi ‘aggiustare’ le cose, impedendo ai due di passare ai fatti e di sparare. O almeno questo è quanto dichiarato da chi doveva eseguire l’ordine. In una conversazione del 14 giugno 2018, infatti, Gigante e Palazzo sostengono che non hanno ‘obbedito’ perché il fratello di Penza, Vito, aveva ritirato l’ordine. Versione a cui Totti non ha creduto del tutto come dimostra la ‘delusione’ per quell’omicidio mancato, ritenuto un segno di disaffezione (“vuol dire che non hai più stima verso il tuo papà”).
Non è stato l’unico ordine. C’è anche il mandato ad uccidere l’albanese “Genny”, nome Shkelzen Pronjaj accusato, ingiustamente, di essersi impossessato di un ingente quantitativo di droga nascosta in un garage a San Foca, dove si erano presentati gli agenti della Polizia. Durante la perquisizione nel box, i poliziotti avevano trovato più di 191 chili di marijuana, 20 grammi di cocaina e pistola.
Quando Genny ha dato la notizia del box vuoto a Antonio Leto, Antonio Marco Penza – non essendo uscito alcun articolo del sequestro e convinto che l’albanese si fosse impossessato della droga – incaricava Leto di torturare Pronjaj fino a quando non avesse restituito il maltolto ed eventualmente ucciderlo. Ordine che non aveva preso di buon grado, vista l’amicizia che lo legava all’albanese. In una ‘conversazione’ ammette di aver pianto e di non aver dormito la notte, augurandosi che la notizia del sequestro uscisse quanto prima. Cosa che effettivamente è accaduta. Letti gli articoli, i propositi criminali sono rientrati.
Tanti gli episodi che dimostrano che gli infami dovevano essere puniti, come i propositi di vendetta di Cristian Pepe contro D. T. M. che, in occasione dell’omicidio di un gioielliere (avvenuto a Galatone nel lontano 1992) interrogato dagli investigatori non aveva allontanato i sospetti dal capo-clan. Insomma, non lo aveva scagionato, facendo cadere il suo alibi dichiarando che quella sera non era con lui.
Pepe fu poi ingiustamente condannato a 19 anni di reclusione e per questo aveva giurato di vendicarsi, animato da un forte risentimento.
