Oriana Fallaci, lo “scrittore” che ha raccontato il mondo e le sue contraddizioni

Il 15 settembre 2006 si è spenta a causa di un cancro ai polmoni Oriana Fallaci, la giornalista più apprezzata al mondo.

«Voglio morire nella torre dei Mannelli guardando l’Arno dal Ponte Vecchio. Era il quartier generale dei partigiani che comandava mio padre, il gruppo di Giustizia e Libertà. Azionisti, liberali e socialisti. Ci andavo da bambina, con il nome di battaglia di Emilia. Portavo le bombe a mano ai grandi. Le nascondevo nei cesti di insalata». Era questo il desiderio di Oriana Fallaci, la giornalista italiana più conosciuta e apprezzata al mondo, la donna che, con coraggio, è riuscita a farsi strada in un mondo, quello del giornalismo, che negli anni cinquanta parlava quasi esclusivamente al maschile.

Non era solo questo Oriana. Era anche uno “scrittore”, il mestiere “da ricchi e da vecchi” che fin da bambina aveva desiderato fare e come si legge sulla lapide del Cimitero degli Allori di Firenze, dove è sepolta e riposa accanto ai genitori. Voleva fosse scritto così, al maschile, anche se era stata molto altro.

Con l’immancabile sigaretta stretta tra le dita, gli occhialoni e il registratore a nastro aveva firmato alcuni dei pezzi più belli, rivoluzionando il modo di scrivere, ma anche di intervistare, con le domande costruite ad hoc, smontate e rimontate, come se fosse un interrogatorio. Per sessant’anni è stata testimone coraggiosa del XX secolo e dei conflitti che l’hanno segnato. Ha raccontato la storia vivendola sul campo e le storie, sempre da un punto di vista diverso, nuovo. Rilegge e riscrive i suoi pezzi molte volte e accetta di scrivere di tutto, dalla cronaca nera al costume. Non rifiuta mai un compito, tranne una volta. In occasione di un comizio di Palmiro Togliatti, il suo caporedattore le chiede un pezzo “cattivo e divertente”, ma Fallaci risponde che prima avrebbe ascoltato il comizio, poi avrebbe deciso come trattarlo. Viene licenziata.

Indimenticabile i sui articoli come quello del 1951 “Anche a Fiesole Dio ha avuto bisogno degli uomini” in cui raccontava la storia di un cattolico comunista a cui erano stati negati i sacramenti e i cui compagni vestiti da prete avevano inscenato un funerale religioso e i reportage come “Hollywood vista dal buco della serratura” (che divenne anche il suo primo libro) nato durante un viaggio negli Stati Uniti, sua seconda casa. Indimenticabili i suoi racconti come inviata di guerra in Vietnam (fu la prima donna italiana ad andare al fronte in qualità di inviata speciale).

Come giornalista politica impresse sulla carta alcuni dei fatti più importanti dell’epoca, dall’uccisione di Martin Luther King, alla morte di Bob Kennedy. E le sue interviste, come quella a Khomeini, quando lo apostrofò come «tiranno» e si tolse il chador che era stata costretta a indossare per essere ammessa alla sua presenza. Lo fece dopo che l’ayatollah, alle incalzanti domande sulla condizione della donna in Iran, disse che la veste islamica era per donne “perbene” e se non le andava bene non doveva metterla.

«Fallaci: Di questo “chador” ad esempio, che mi hanno messo addosso per venire da lei e che lei impone alle donne.

 

Khomeini: Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non vi riguardano. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene.

 

Fallaci: Molto gentile. E, visto che mi dice così, mi tolgo subito questo stupido cencio da medioevo. Ecco fatto. Però mi dica: una donna che come me ha sempre vissuto tra gli uomini mostrando il collo e i capelli e gli orecchi, che è stata alla guerra e ha dormito al fronte con i soldati, è secondo lei una donna immorale, una vecchiaccia poco perbene?»

Era stata anche un personaggio, ma non una diva, con alle spalle una carriera avventurosa, costruita lontano dalla sua Toscana, dove è tornata per amore e dove ha trascorso gli ultimi giorni, assaporando ancora volta la struggente bellezza della sua Firenze, come se non fosse mai abbastanza. Morì il 15 settembre 2006 a 77 anni, a causa di un cancro ai polmoni, l’alieno come lo aveva chiamato, di cui aveva parlato apertamente fose come non era mai stato fatto.

«Io non capisco questo pudore, questa avversione per la parola cancro. Non è neanche una malattia infettiva, non è neanche una malattia contagiosa. Bisogna fare come si fa qui in America, bisogna dirla questa parola. Serenamente, apertamente, disinvoltamente. Io-ho-il-cancro. Dirlo come si direbbe io ho l’epatite, io ho la polmonite, io ho una gamba rotta. Io ho fatto così, io faccio così e a far così mi sembra di esorcizzarlo».

Donna d’acciaio sul lavoro, quanto fragile nella vita privata. Basta leggere “Lettera a un bambino mai nato” e “Un uomo” per capire. Tra le righe racconta il rapporto con Alexandros Panagulis, conosciuto come Alekos, un leader dell’opposizione greca al regime dei Colonnelli, finito in carcere dopo un attentato fallito a Papadòpoulos. Oriana Fallaci lo intervistò il giorno in cui uscì dal carcere e se ne innamorò. A maggio del 1976 Alekos morì ad Atene in un misterioso incidente automobilistico sul quale la Fallaci indagò per molto tempo. La morte dell’amato compagno segnò indelebilmente la vita della scrittrice.

Non c’è stato un prima e un dopo, ma per molti qualcosa è cambiato nello stile di scrittura di Oriana Fallaci – già conosciuta per il suo leggendario pessimo carattere – dopo l’11 settembre. Oriana si trova a New York quando le Twin Towers crollano come castelli di carta. Pochi giorni dopo, pubblica un articolo di fuoco sul Corriere della Sera dal titolo “La rabbia e l’orgoglio“, con cui accusò l’Occidente e l’Europa di non avere avuto abbastanza coraggio nei confronti dell’Islam. Un pezzo diventato poi un libro con la prefazione Ferruccio de Bortoli che le aveva chiesto di scrivere quello che aveva visto, provato, sentito dopo l’attentato. Lo aveva fatto. «Qualcuno queste cose doveva dirle. Le ho dette. Ora lasciatemi in pace. La porta è chiusa di nuovo. E non voglio riaprirla», disse dopo.

Altre accuse arrivarono quando si schierò contro l’eutanasia in un pezzo pubblicato sul Foglio e nato dalla vicenda di Terri Schiavo. Era solo rimasta fedele a se stessa, come aveva confidato nell’ultima intervista al New Yorker del 30 maggio del 2006: «Apro la mia boccaccia. E dico quello che mi pare».



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