Rina Fort, l’amante gelosa passata alla storia come la «belva di via San Gregorio»

Rina Fort, la «Belva di via San Gregorio», è la protagonista della strage che sconvolse Milano nel 1946. Fu il primo caso di cronaca nera nel dopoguerra

Il 29 novembre 1946 è il giorno in cui Rina Fort smette di essere una donna minuta, dal passato infelice e dal presente tormentato, per diventare la «Belva di via San Gregorio» capace di uccidere la moglie del suo amante e i suoi tre figli piccoli, anime innocenti che hanno pagato a caro prezzo gli “sbagli” dei grandi. Un delitto passionale che passò alla storia come il caso di cronaca nera più efferato del dopoguerra. La tranquillità ritrovata dopo la fine del conflitto era stata interrotta da quella violenza che irrompeva nella vita di una famiglia.

La tragedia si consuma al civico numero 40 di una strada di Milano, quando la donna busso alla porta del modesto appartamento della famiglia Ricciardi, al primo piano di un palazzo che si affacciava su via San Gregorio. Era passata inosservata, con il suo soprabito scuro, perché il portoncino dello stabile aveva la serratura rotta. In casa c’era Franca Pappalardo, la moglie dell’amante che l’aveva ferita e che aveva pensato di liquidarla con poche lire. Erano lì anche i tre figli della coppia Giovanni, di sette anni, Giuseppina, di cinque, e il piccolo Antoniuccio, di appena 10 mesi.

Cosa accadde dopo che le due si strinsero la mano fu la stessa Font a confidarlo nella sua lunga confessione, forse una resa dopo diciassette estenuanti interrogatori. Aveva passato 80 ore sotto torchio quando raccontò il film dell’orrore di cui era stata protagonista.

La bottiglia di rosolio e dei bicchieri sporchi trovati sul tavolo della cucina, di cui uno macchiato di rossetto, raccontano di una discussione, un faccia a faccia tra le due rivali, la ex ‘scaricata’ da Pino, non certo un adone, ma un uomo qualunque proprietario di un negozio di tessuti e la moglie di sempre, incinta del quarto figlio. Franca conosceva quel volto: era per lei che aveva lasciato la Sicilia e si era trasferita a Milano, per lei aveva lasciato tutto e aveva raggiunto il marito che con il suo comportamento aveva fatto “chiacchierare”.

«Cara signora – disse, cercando di mantenere quella dignità perduta quando aveva saputo dell’amante del marito, presentata ai vicini come moglie – lei si deve metter l’animo in pace e non portarmi via Pippo, che ha una famiglia con bambini». Un affronto che Caterina, questo il suo vero nome, non ha sopportato. Accecata dalla gelosia Rina afferrò una sbarra di ferro e cominciò la mattanza.

La confessione della belva di via San Gregorio

«L’ho colpita alla testa con un ferro che avevo preso in cucina» raccontò. E ha continuato ad infierire anche quando Franca era a terra, incapace di difendersi e, peggio, di proteggere i suoi figli, condannati allo stesso destino. Giovannino, il più grande, aveva provato a salvare la mamma da quella violenza inspiegabile agli occhi di un bambino. Fort colpì anche lui. Poi toccò a Pinuccia e ad Antonio, seduto sul seggiolone. Neanche per lui c’era stato un gesto di pietà. «Terrorizzata dal macabro spettacolo, scesi le scale e … mi ritrovai sui gradini che portano alla cantina. Rimasi seduta pochi attimi per riprendere fiato, poi tornai nell’appartamento» disse. Franca e i suoi figli non avevano esalato l’ultimo respiro. In un ultimo, disperato, tentativo raccomandò alla sua amante i suoi bambini. «Agonizzavano ancora quando accostai la porta e scesi le scale. Andai a casa, mangiai due uova fritte con i grissini. La notte non potei dormire. Il giorno seguente mi recai normalmente al lavoro…».

La scoperta dei corpi

30 Novembre 1946. L’orologio aveva da poco segnato le 8.00 quando davanti all’appartamento di via San Gregorio si presenta la nuova commessa del negozio di Giuseppe Ricciardi, la donna che aveva sostituito Caterina quando era stata allontanata via. Doveva prendere le chiavi della bottega, ma la porta era semiaperta ed entrò. Bastarono pochi passi per scoprire l’orrore: Franca Pappalardo e il figlio maggiore erano distesi all’ingresso in un lago di sangue, in cucina c’erano i corpi del piccolo Antonio sul seggiolone, con la bocca tappata da un pannolino e Giuseppina sul pavimento con la testa fracassata.

Sembrava una rapina finita in tragedia. Sembrava perché nessuno, neanche il più crudele dei criminali (forse) avrebbe ucciso un’intera famiglia per pochi spicci (mancavano alcuni pezzi di argenteria di scarso valore). Era stato un delitto passionale come dimostrava una fotografia delle nozze della coppia stracciata con rabbia e abbandonata sul pavimento. Un omicidio commesso da una «specie di demonio che si aggirava per la città in una fredda sera di fine novembre» come scrisse Dino Buzzati, tra i primi giornalisti ad arrivare sul posto.

I sospetti degli agenti guidati dal mitico commissario Mario Nardone conducono a Rina che quella mattina, come se nulla fosse, si era presentata puntuale nella pasticceria dove lavorava, avendo cura però di lasciare il cappottino macchiato di sangue nel suo appartamento dove viveva con la sorella e dove per qualche mese aveva ospitato anche Pino.

Quando confessa Caterina – reduce da un’infanzia infelice (aveva perso il padre durante una passeggiata in montagna) e da un matrimonio ancor più disgraziato (il primo fidanzato era morto di tubercolosi e l’uomo con cui era convolata a nozze era un malato di mente) – diventa la «belva di via San Gregorio». Era stato Nardone a farla crollare con un trucco «Sporcai di rossetto una sciarpa di quel mascalzone del suo amante, un mezzo uomo che non aveva versato una lacrima in tutta la vicenda. Guarda come se la spassa mentre tu sei in galera» raccontò. Basto questo.

I quotidiani come il Corriere della sera impiegarono le migliori firme per seguire il caso. Resteranno impressi gli articoli di Dino Buzzati, presente a tutte le udienze del processo insieme alle tricoteuses, donne che passavano la giornata tra i banchi del pubblico, lavorando a maglia e auspicando, quando la Corte non sentiva, le più efferate sevizie per quella belva dalla sciarpa gialla.

La condanna

Sottoposta a visita psichiatrica era stata dichiarata sana di mente. Rina Fort, che cambiò sette versioni (disse anche che aveva avuto un complice, un certo Carmelo), fu condannata all’ergastolo. Trascorse in carcere venticinque anni continuando a sostenere sempre di non aver ucciso i bambini. Uscì di galera, graziata per buona condotta dal presidente Giovanni Leone, nel 1975 e si stabilì a Firenze, dove si spense nel 1988. Il “grande male” come lo aveva chiamato Buzzati se n’era andato in silenzio. Non tornò mai in via San Gregorio, e nemmeno a Milano.



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