Maria Mirabela, uccisa a sette anni e trovata mummificata in un materasso abbandonato in strada

La storia di Maria Mirabela, la bambina rom scomparsa nel nulla il 13 novembre 1999, è la cronaca di un omicidio senza colpevoli. Dopo quattro mesi di ricerche il corpicino fu trovato, mummificato, in un materasso

Nell’infanzia di Maria Mirabela, una bambina rom di sette anni, non ci sono colori, giochi o risate. Con i suoi capelli scuri e lo sguardo serio si aggira per le strade di Bitonto con la mamma e le sorelle per chiedere l’elemosina. Ogni giorno stende la manina sporca per implorare qualche spiccio da dare agli adulti. Lo aveva fatto anche quella fredda mattina del 13 novembre 1999, quando scomparve nel nulla a pochi passi da un semaforo, all’incrocio con quella che un tempo era la statale 98. Si era allontanata da sola o era stata rapita? Chi aveva sequestrato la bambina, Mona Lisa come la chiamavano per i suoi treccioni spessi e neri, che mendicava all’angolo della strada? Chi poteva averla portata via, per sempre?

Il rapimento di Maria

L’orologio aveva da poco segnato le 12.00 quando Maria Mirabela Rafailà scompare nel nulla. Quel giorno, all’incrocio tra la provinciale e la strada che da Bitonto conduce a Palo del Colle era da sola. Le due sorelline si erano allontanate per fare pipì dietro un muretto a secco e i genitori erano rimasti a casa. Una volta lanciato l’allarme, mamma Ileana e papà Gheorghe bussano alla porta del locale Commissariato per raccontare l’accaduto: la figlia più piccola era sparita.

I genitori della bambina accusati del ‘rapimento’

Sono loro, i genitori della bambina, a finire per primi sotto i riflettori. Il sospetto, carico di pregiudizio, è che dietro alla scomparsa di Maria ci sia il commercio di bambini. Con l’aiuto di un interprete, la Procura ascolta gli sfoghi, il commenti, i discorsi della famiglia. Non è facile, perché i Mirabela-Rafailà parlano rumeno “condito” da dialetto rom, un idioma misto insomma. Per aiutare la traduttrice fu chiamata una poliziotta, di origini rom, in servizio alla questura di Bologna. Un personaggio che influenzerà in modo imprevedibile e drammatico gli avvenimenti delle settimane e dei mesi successivi.

Ascoltando le intercettazioni arriva la svolta. Il 17 dicembre, i genitori della bambina finiscono in manette con l’accusa, gravissima, di aver venduto la figlia ad un’altra tribù nomade per riscattare un debito non pagato. Inchiodati dai discorsi, dalle conversazioni, dall’atteggiamento troppo “poco addolorato”, dai tentativi – si pensava – di depistare le indagini, come quando papà Gheorghe chiamò la Polizia per dire di aver trovato per caso una scarpa della bambina non lontano dall’incrocio dove era stata vista l’ultima volta, in un punto battuto accuratamente durante le ricerche disperate della piccola. Una scarpa “stranamente” pulita, rimasta abbandonata per giorni su un terreno in balia dalle intemperie. Insieme a loro finisce nei guai anche il portavoce della comunità rom rumena di Bari. I tre negano, respingono la ricostruzione della Procura, sostengono che le interpreti abbiano completamente travisato il senso dei loro discorsi. Ma nulla.

La mamma e il papà di Maria restano in carcere fino al 23 marzo, quando è stata dimostrata l’infondatezza delle accuse mosse contro di loro. La traduttrice e la poliziotta avevano “frainteso” quanto ascoltato, immaginando trame che non hanno trovato riscontri nella realtà. Il complotto internazionale del quale farebbero parte anche alcuni dei poliziotti che avevano seguito, fino a quel momento, le indagini oltre a imprecisati membri dei servizi segreti non esisteva.

Per i genitori resta l’accusa di abbandono di minore e per aver costretto le figlie a chiedere l’elemosina, ma dopo mesi di indagini si torna al punto di partenza. L’indagine ricomincia, letteralmente, da zero.

La scoperta del corpo in un materasso

La verità, o almeno parte della verità, si svela una mattina del 30 marzo ad un pastore che scopre il corpo della bambina a poco meno di 200 metri dall’incrocio ‘maledetto’, su un terreno coltivato a foraggio perlustrato meticolosamente più volte. Era in un mobile-letto, raggomitolato in un materasso “stretto” dalla rete piegata. Le unghie dipinte di rosso, un foulard a fantasia tra i capelli, gli stessi abiti indossati il giorno della scomparsa, quando probabilmente è morta, il corpicino mummificato, riconosciuto grazie a una piccola scarpa da ginnastica, l’unica che indossava. Maria non era stata rapita, era stata uccisa e abbandonana. Era sempre stata lì, almeno secondo alcuni testimoni.

Si ricomincia, ancora una volta, da capo, percorrendo altre strade, cercando altre piste. Una porta a un ragazzo albanese, dipendente dell’allevatore che aveva trovato il corpo di Maria, che vive in una roulotte, ma nella dimora “mobile” del giovane, ispezionata dalla scientifica in lungo e largo, non vien trovato nulla.

Il vigile caparbio e il maniaco, un insospettabile dottore

Un vigile urbano di Bitonto, che aveva preso a cuore la storia di Maria, sorvegliava ogni giorno il luogo dove era stato trovato il corpo della bambina, convinto che l’orco, prima o poi, si sarebbe fatto vivo. Si torna sempre sulla scena del crimine, pensò. Scopre, così, un uomo – un medico, in servizio in un noto ospedale – che si masturba in macchina. Era parcheggiata sulla stradina del ritrovamento, una via di campagna dove è impossibile capitare per caso. E poi corrisponde al profilo disegnato del presunto killer: non si era mai sposato, aveva abitato buona parte della vita con una madre anziana e trascorreva il suo tempo libero girando in auto, senza meta.

A suo carico, però, c’erano solo congetture, una denuncia per atti osceni in luogo pubblico e resistenza a pubblico ufficiale. Servivano delle prove. Così scatta la perquisizione: quando gli uomini in divisa aprono la porta trovano un appartamento pulito, in ordine. Non c’era nulla, ma un ispettore si accorge che in bagno mancava lo spazzolino. Si scopre un altro appartamento, al pian terreno della palazzina di sua proprietà. Quando entrano, questa volta, trovano di tutto, persino secchi pieni di urina nel soggiorno, in cucina e in camera da letto, ma niente in quella casa degli orrori lo qualifica come un assassino, nemmeno come un potenziale sospettato. Anche questa pista si è rivelata un vicolo cieco, come quella del pedofilo romano che molestava le bambine che chiedevano l’ elemosina agli angoli degli strade. Proprio come Maria.

L’epilogo: un omicidio senza colpevole

Chi ha ucciso Maria Mirabela? Il killer non ha un volto né un nome. Terminate le piste, archiviati i complotti, i rapimenti la pedofilia, sulla bambina è calato il silenzio.



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