27 novembre 1990. L’orologio aveva da poco segnato le 19.00 quando a Gela scoppiò una ‘guerra’ tra la “Stidda”, i mafiosi delle “stelle” convinti di poter affermare con il sangue il proprio potere e Cosa Nostra. Quattro agguati scattati contemporaneamente in diverse zone della città lasceranno sulle strade trasformate in campo di battaglia 8 morti e 7 feriti: il più piccolo Giuseppe Areddia, aveva appena 17 anni, il più grande Francesco Rinzivillo, nome di spicco del clan di Giuseppe Madonia, 45. Diciotto minuti per un massacro, una strage, la strage di Gela.
L’inferno nella sala giochi e gli altri agguati
L’inferno comincia in Corso Vittorio Emanuele, dove si affaccia una sala giochi. Qui viene sparato il primo colpo. L’ultimo lascerà a terra Francesco Rinzivillo, “uomo di rispetto”. L’orologio segna le 19.00 quando davanti al locale si presentano in quattro. Uno, su una moto Enduro, tira fuori un fucile da caccia che aveva nascosto nell’impermeabile e si mette a sparare come un pazzo per terrorizzare i passanti. Tre, armati di pistola, entrano nella sala, salgono sui biliardi verdi e premono il grilletto, noncuranti dei giovani clienti. Emanuele Trainito, 24 anni, è il primo a cadere. La stessa sorte toccherà ai suoi amici di gang, una banda al soldo della cosca di Giuseppe Madonia. Salvatore Di Dio (18 anni) fa la stessa fine qualche minuto dopo. L’ultimo è Peppino Areddia, 17, che aveva cercato, invano, di scappare. Gli hanno sparato alle spalle e lo hanno lasciato sul marciapiede, senza vita.
«Mi parivanu bummiccedde (mi sembravano petardi)», ricorda il barbiere della bottega accanto. Chi doveva morire era morto, ma a terra restano altri ragazzi: il bilancio è di sei adolescenti feriti.
Non c’è nemmeno il tempo di stendere il lenzuolo sul corpi senza vita lasciati nella sala giochi diventata una tomba illuminata con le luci a neon che arrivano altre segnalazioni. Ancora sangue, ancora morte. Il secondo agguato avviene una baracca di legno. Tre i morti trovati tra le cassette di frutta e verdura: l’obiettivo era Giovanni Domicoli, anche lui legato a “Piddu”. L’orologio che ha al polso si ferma alle 19.07. Il venditore ambulante era nella lista nera dei sicari insieme al fratello, che riesce a salvarsi. Più tragico il destino di Nunzio Scerra e Serafino Incardona, incensurati senza storia che si trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato. All’ora dei regolamenti dei conti si trovavano lì per caso.
Non era finita. Alle 19:15 scatta il terzo agguato: Luigi Bianco, fedina penale pulita, viene ucciso davanti alla porta della sua casa pitturata a nuovo, a pochi passi dal cimitero monumentale. Alle 19:18, Francesco Rinzivillo, affiliato di spicco della cosca, cade nel quarto e ultimo agguato non lontano da una macelleria. Conto chiuso a colpi di lupara.
Le indagini
La tragica conta è finita dopo diciotto minuti. I cadaveri erano 8, i feriti 7, nemici e incolpevoli testimoni. Una strage per un uomo di rispetto offeso. Il perché della mattanza non è rimasto senza risposta: la banda di via Abela aveva chiesto il pizzo ad un commerciante di pellicce che non doveva essere toccato.
Qualche giorno dopo la strage, gli uomini della Squadra Mobile di Caltanissetta guidati dal commissario Carmelo Casabona individuarono ed arrestarono uno degli autori. Ha compiuto diciotto anni da pochi mesi, sul viso non ha un filo di barba, ma è un estortore di professione. L’avevano arrestato due volte ma l’aveva fatta franca. E lui, una volta lasciato il carcere, era tornato dalle sue vittime. Passeggiava davanti alle loro botteghe per far vedere che era un uomo libero. Nel covo, dove avevano festeggiato dopo la strage con champagne e aragoste, gli uomini in divisa hanno trovato i documenti di altri tre ragazzi, forse suoi complici.
Grazie al racconto di due pentiti, padre e figlio, gli investigatori riescono a ricostruire la strage. Nomi, dettagli, particolari.
Un quotidiano francese, all’indomani della strage, definì Gela “Mafiaville”, ma non era solo questo. La città della gente per bene è riuscita a rialzarsi.