Vermicino, la tragedia del piccolo Alfredo Rampi che cambiò il volto dell’Italia

Nessuno a distanza di tanti anni ha dimenticato la tragedia di Vermicino. Nel drammatico destino di Alfredino Rampi, il bambino di sei anni caduto in un pozzo artesiano, per la prima volta si perse il confine tra pubblico e privato.

Sono da poco passate le 19.00, Ferdinando Rampi, 41enne romano, passeggia con un paio di amici lungo un viottolo sterrato in mezzo alle vigne. Abita a piazza Bologna, nel centro di Roma, ma d’estate cerca rifugio con la sua famiglia in una villetta di campagna, tirata su mattone dopo mattone, in via di Vermicino, a pochi chilometri da Frascati. Il figlio maggiore Alfredo, un bambino di sei anni con una malformazione al cuore e in attesa di intervento nel frattempo gioca, ma vuole tornare a casa da solo e papà acconsente. Si tratta di percorrere pochi metri, un sentiero che conosceva bene. Perché non lasciarlo andare? Ad aspettarlo ci sarebbero state mamma Francesca e nonna Veja che stanno preparando la cena. Riccardo, il fratellino più piccolo, dorme. Il racconto è quello di una giornata qualunque. Una giornata di inizio estate che sarebbe diventata la tragedia di Vermicino.

Alle 19.20, quando papà Nando fa ritorno a casa Alfredo non c’è. Lo cercano ovunque, sembra sparito nel nulla. Per circa tre ore, gli agenti della polizia, allertati dai genitori preoccupati, battono le campagne circostanti, con l’aiuto delle unità cinofile. Metro dopo metro, mentre il buio sta per calare su Vermicino. Anche alcuni residenti della zona hanno deciso di dare una mano.

Mezz’ora dopo la mezzanotte, la terribile notizia: un agente ha sentito dei lamenti provenire da un pozzo artesiano. Basta tendere l’orecchio per sentire che qualcuno urla «Mamma». Alfredino è lì, in quel cunicolo, incastrato a circa 36 metri di profondità. Sotto i suoi piedi altri 44 metri di vuoto. Lo avevano già controllato: era coperto da una lamiera “fermata” con delle grosse pietre. Era impossibile che il bambino fosse scivolato, si convinsero tutti. Ma i lamenti provenienti dal fondo spazzarono via i dubbi. Si scoprì poi che il proprietario del pozzo, ignaro della tragedia, aveva coperto la superficie poco prima che cominciassero le ricerche.

Ma non c’era tempo da perdere. Bisognava tirare fuori Alfredino, e bisognava tirarlo fuori il prima possibile!

Era il 10 giugno 1981, giorno in cui l’Italia cambiò volto, forse per sempre.

Le infinite notti di Vermicino

Il resto è una triste storia nota a tutti. Una tv locale si precipita sul posto a registrare il tentativo di salvataggio con una tavoletta di legno: si rivelerà un fallimento totale. Sarà il primo di una lunga serie di «errori», di soluzioni sbagliate, di prove inutili. Prima si decide di scavare un pozzo parallelo usando una trivella in grado di bucare il terreno. Si cerca addirittura un nano che possa entrare nel foro a prenderlo, poi un contorsionista. Persino un ragazzino di 15anni si offrì di calarsi in quel buco strettissimo, salvo poi essere bloccato già imbragato dal magistrato presente sul posto.

Sono state tante le persone che hanno tentato di tirare fuori Alfredino, alcune sono riuscite addirittura a toccare il piccolo, ricoperto dal fango, stremato, al limite. Non si lasciò niente di intentato, ma quanta incertezza e quanta angoscia in quella drammatica altalena di speranze e delusioni. Il tutto mentre riecheggiano ancora nell’aria circostante le parole del piccolo Alfredo «sfondate la porta ed entrate nella stanza buia».

L’epilogo si avrà sabato 13 giugno. Sarà Donato Caruso, questa volta, a scendere nel pozzo maledetto con delle manette per evitare che scivoli ancora, ancora più giù: è giovane, ha sangue freddo, è magrissimo, può farcela, deve farcela. Sarà l’ultimo disperato tentativo: alle 6.40, il volontario riuscì a raggiungere Alfredino, al secondo tentativo. «Lo senti respirare? Si muove? Il bambino si è mosso?». Niente. Dopo 63 ore di agonia un giornalista comunicò in lacrime che il bambino era morto. Il corpicino del piccolo Alfredo fu recuperato da tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano, l’11 luglio, ben 28 giorni dopo.

«Volevamo vedere un fatto di vita e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo a lungo a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi». Furono queste le parole, di Giancarlo Santalmassi durante l’edizione straordinaria del Tg2 del 13 giugno 1981.

A Vermicino lo spettacolo era finito, altrove era solo iniziato. Sulla vicenda, infatti, si accesero ben altri riflettori come se quelli dell’interminabile diretta a reti unificate non fossero bastati. Ed è questa l’altra faccia di questa triste tragedia, in cui si è mescolato il meglio ed il peggio dell’Italia. Per la prima volta nella storia della televisione italiana un dramma privato era diventato spettacolo, un reality show a cui assistere con il fiato sospeso. 21 milioni di persone rimasero incollate per ore davanti al televisore, tutte con le lacrime agli occhi a cominciare dall’allora presidente della repubblica, Sandro Pertini, che volle assistere di persona alle operazioni di soccorso.

Un evento mediatico senza precedenti. Tutto doveva essere spettacolarizzato e non fu risparmiata neppure la mamma di Alfredino, accusata di essersi allontanata per cambiarsi d’abito, di non essersi «disperata abbastanza» in maniera evidente. Seguirono perfino telefonate a casa Rampi in cui si chiedeva se fosse vero che il bimbo non era figlio di Nando, si insinuava che era stato il padre a gettarlo nel pozzo per liberarsi di un bambino cardiopatico dalla nascita.

L’Italia da quel giorno mostrò un volto nuovo, sconosciuto. L’Italia da quel giorno uscì cambiata per sempre.