Muore Trilussa, voce ironica de Roma

Il 21 dicembre del 1950 si spegneva a Roma Carlo Alberto Salustri, in arte Trilussa, il celebre poeta, scrittore e giornalista, noto per le sue composizioni in dialetto romanesco.

Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri. Un nome sconosciuto ai più, ma basta dire Trilussa per aprire il cassetto dei ricordi. Un cofanetto pieno di composizioni ironiche e divertenti, di poesie malinconiche in dialetto romanesco, di fiabe e storie. Era il 21 dicembre 1950, quando lo scrittore, padrino di battesimo del giornalista sportivo Sandro Ciotti, morì a 79 anni, nonostante si ostinasse, con civetteria d’altri tempi, a dichiarare di averne 73. Era nato nel 1871 in una casa di famiglia che si affacciava su via del Babuino, non distante da Piazza di Spagna. A soli 3 anni perse il padre. Con la madre si trasferì prima in via di Ripetta e poi a piazza di Pietra, nel palazzo del suo padrino di battesimo: il marchese Ermenegildo De’ Cinque Quintili.

Le sue ultime parole, pronunciate quasi farfugliando alla fedelissima domestica Rosa Tomei che firmava gli autografi imitando alla perfezione la calligrafia del maestro, pare siano state: “Mò me ne vado”. Intervistata da un giornalista di Epoca raccontò: “Gli stavo preparando una sciarpa nuova, ora non gli servirà più”.

Venti giorni prima, l’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi lo aveva nominato senatore a vita “per avere illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo letterario e artistico”.

Trilussa (nome d’arte e anagramma del suo cognome) è sepolto al Cimitero del Verano, tra le tante tombe illustri e di romani come tanti. Sulla sua lapide è scolpita, come epitaffio, una sua breve poesia dal titolo “Felicità“. C’è un’ape che si posa Su un bocciolo di rosa: Lo succhia e se ne va … Tutto sommato, la felicità è una piccola cosa. si legge.

La tartaruga

Mentre una notte se n’annava a spasso,
la vecchia tartaruga fece er passo più lungo
de la gamba e cascò giù
cò la casa vortata sottoinsù.
Un rospo je strillò: “Scema che sei!
Queste sò scappatelle che costeno la pelle…”
– lo so – rispose lei – ma prima de morì,
vedo le stelle.

Er camaleonte e la farfalla

Un giorno la farfalla stanca de danzà ner cielo,
s’agnede a riposa l’ali, su ‘n ber fiore de melo.
Nascosto tra le fronne er camaleonte la spiava,
lei se ne accorse e dall’arto lo disprezzava:
– che t’ho fatto – s’avvicinò, affranto dar dolore,
– sei n’ poraccio perché nun c’hai n’colore –
Lui ja rispose – vabbè ma c’ho n anima e n’cervello –
e lei – ma sei solo e brutto, oggi conta solo quello. –
Goffo je s’avvicinò piano piano,
e sussurò fissandola un pò strano
– Ricordete, oh mia bella farfallona,
che ortre ad esse brava e bella, sei pure bona . –
Era proprio n’bocconcino appetitoso,
cosi je diede n’bacio cor linguone appiccicoso.
Nella vita nun basta esse bravo e bello,
devi ave core e n’pochino de cervello.

Er gatto, er cane

Un gatto soriano diceva a un barbone:
– Nun porto rispetto nemmanco ar padrone,
perché a l’occasione je graffio la mano;
Ma tu che lo lecchi te becchi le botte:
te mena, te sfotte, te mette in catena
cor muso rinchiuso e un cerchio col bollo
sull’osso del collo.
Seconno la moda te taja li ricci
te spunta la coda… che belli capricci!
Io guarda… so’ un gatto, so’ un ladro, lo dico:
ma a me nun s’azzarda de famme ste cose… –
Er cane rispose:
– Ma io je so’ amico! –

L’uccello in chiesa

Era d’agosto e un povero uccelletto,
ferito dalla fionda d’un maschietto,
andò, per riposare l’ala offesa,
sulla finestra aperta d’una chiesa.
Dalle tendine del confessionale
il parroco intravide l’animale
ma, pressato dal ministero urgente,
rimase intento a confessar la gente.
Mentre in ginocchio alcuni, altri a sedere
dicevano i fedeli le preghiere,
una donna, notato l’uccelletto,
lo prese al caldo e se lo mise al petto.
D’un tratto un cinguettio ruppe il silenzio
e il prete a quel rumore
il ruolo abbandonò di confessore
e scuro in viso peggio della pece
s’arrampicò sul pulpito e poi fece:
“Fratelli, chi ha l’uccello, per favore,
esca fuori dal tempio del Signore.”
I maschi, un po’ stupiti a tal parole,
lenti s’accinsero ad alzar le suole.
Ma il prete a quell’errore madornale
“Fermi!”, gridò, “mi sono espresso male.
Rientrate tutti e statemi a sentire:
solo chi ha preso l’uccello deve uscire.”
A testa bassa, la corona in mano,
cento donne s’alzarono pian piano.
Ma mentre se n’andavano ecco allora
che il parroco strillò:
“Sbagliate ancora! Rientrate tutte quante,
figlie amate, ch’io non volevo dir quel
che pensate.” “Ecco, quello che ho detto
torno a dire: solo chi ha preso l’uccello
deve uscire, ma mi rivolgo, non ci sia sorpresa,
soltanto a chi l’uccello ha preso in chiesa.”
Finì la frase e nello stesso istante
le monache s’alzaron tutte quante,
e con il volto pieno di rossore
lasciavano la casa del Signore.
“Oh Santa Vergine!”, esclamò il buon prete,
“Fatemi la grazia, se potete!
Poi: “Senza fare rumore dico, piano piano,
s’alzi soltanto chi ha l’uccello in mano.”
Una ragazza, che col fidanzato
s’era messa in un angolo appartato,
sommessa mormorò, col viso smorto:
“Che ti dicevo? Hai visto? Se n’è accorto!



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