Sette proiettili per il professore, l’omicidio di Vittorio Bachelet

Vittorio Bachelet fu ucciso con sette colpi di pistola sulle scale dell’università la Sapienza di Roma da due terroristi delle Brigate Rosse. Era il 12 febbraio 1980.

«Vogliamo pregare per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri». Nel giorno del funerale di Vittorio Bachelet, ucciso dalle Brigate Rosse, il figlio Giovanni, all’epoca venticinquenne, ha voluto pregare per gli assassini del papà, ferito a morte sulle scale della facoltà di scienze politiche dell’Università la Sapienza di Roma. Era il 12 febbraio 1980.

L’omicidio

Sembrava un giorno come tanti alla Sapienza. Anche per Bachelet sembrava un giorno di lavoro come un altro Mentre gli studenti passeggiavano con i libri sotto il braccio nei viali dell’università, il professore di Diritto amministrativo e di scienza dell’amministrazione, aveva appena concluso la sua lezione, nell’aula numero 11 dedicata ad Aldo Moro. Chiacchierando con la sua assistente Rosy Bindi, che al tempo aveva 29 anni, aveva raggiunto le aule professori, ma sulle scale che conducono al secondo piano trovò la morte. Aveva il volto di due terroristi.

La prima a premere il grilletto della fu una donna. Sparò 4 colpi all’addome dopo aver costretto il professore a voltarsi, afferrandolo con una mano. Il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura tentò di trovare riparo in un angolo, ma il suo destino era segnato. A finire il professore con una Beretta 7,65 fu un giovane, poco più che un ragazzo. Fu lui a dargli il colpo di grazia, alla nuca, mentre era a terra agonizzante.

Quando la notizia dell’omicidio comincia a diffondersi, i cancelli della città universitaria vennero chiusi, ma era tardi: chi doveva fuggire era fuggito, lasciando dietro di sé solo dolore. I killer erano riusciti a scappare creando il caos. Avevano detto che c’era una bombe e nel fuggi-fuggi generale erano riusciti a raggiungere un cancello secondario che qualcuno aveva aperto durante la notte, rompendo la catenella del lucchetto. Poi via a bordo diuna Fiat 131, rubata qualche giorno prima, che li attendeva su viale Regina Elena.

«L’abbiamo giustiziano noi»

Mentre la moglie Maria Teresa piange e accarezza il viso del marito ucciso e il presidente Sandro Pertini con il suo cappotto beige scuote il capo davanti al cadavere dell’amico, arriva la rivendicazione. «Abbiamo giustiziato noi il professor Bachelet. Seguirà comunicato». Con queste parole le brigate rosse hanno firmato l’omicidio di un uomo, di un padre di famiglia.
Per l’omicidio del professore, 54 anni ancora da compiere, furono arrestati due brigatisti rossi Bruno Seghetti e Anna Laura Braghetti, protagonisti del sequestro dell’onorevole Aldo Moro avvenuto due anni prima: una era la vivandiera del Presidente durante i cinquantacinque giorni di prigionia, l’altro faceva parte del commando presente in via Fani.

Bachelet, ucciso perché era un bersaglio facile (secondo la Braghetti il vicepresidente del CSM fu scelto perché raggiungibile senza troppe difficoltà: «non aveva scorta e faceva sempre gli stessi percorsi», scriveva nel libro Il Prigioniero), sapeva in cuor suo di essere finito nel mirino dei terroristi (il suo nome era stato trovato nelle carte dei brigatisti che avevano ucciso Aldo Moro), ma quel giorno sulle scale dell’Università era solo. C’era solo la sua assistente e qualche studente, testimoni dell’ennesimo delitto eccellente.



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